«Il potere, bisogna imparare a riconoscerlo». Questa frase pronunciata all’inizio del film, che echeggia minacciosa come un monito e non come una semplice avvertenza preliminare, potrebbe bene rappresentare la “morale” di questa storia amara ed ingiusta, dove corruzione e violenza sono ritratte nella loro più pura e crudele semplicità, trascinate in un gorgo di complicazioni fatte di drammi famigliari e battaglie giudiziarie. La vastità desolata della natura russa si alterna a scorci urbani grigi e decadenti, a comporre l’affresco di una realtà ancora tutta immersa in quella specie di buco nero che sembra essere la Russia post-socialista, a metà tra il deterioramento definitivo e un’apparente e già sclerotizzata rinascita, nella quale lo stato si materializza in un composto micidiale di anarchia e dispotismo, dove poteri di ieri e di oggi, frutto di antiche legittimazioni e nuovi rapporti di forza, convivono e si traducono in forze di polizia corrotte e politici malavitosi ed oppressori.
Tutto questo ci porta a comprendere bene allora le ragioni del titolo; al di là del rimando filologico al testo biblico, che pure nel film viene fatto, Leviathan è qui più che mai l’allegoria hobbesiana del potere in azione, un potere senza controllo né limiti, una bestia feroce che tutti stritola e divora nella sua morsa letale, dove non c’è spazio per la legalità e la giustizia, ormai cadute sotto il giogo dell’arrivismo cieco e senza scrupoli. Ecco il volto di questo piccolo Leviatano di provincia: un sindaco che tenta qualsiasi strada, lecita o meno, per impossessarsi di una proprietà che non gli appartiene, il signore incontrastato d’una cittadina piegata al suo volere, le cui istituzioni sono pedine nelle sue mani, da poter muovere a proprio piacimento (emblematica a questo proposito è la scena nella quale egli raduna attorno a sé i rappresentanti di tutti i poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario).
Nel prosieguo la storia, che per il modo in cui tratta personaggi e tematiche pare uscita direttamente dalla penna di Zola, non sembra lasciare scampo alle pressioni spietate del potere e del destino e trascina con sé le vite dei protagonisti in un abisso di sofferenza e dolore dal quale non è più possibile fuggire, dove il peso dell’oppressione, assieme statale, burocratica, fisica ed esistenziale, è troppo per poter essere sopportato; non c’è possibilità di riscatto o anche solo di resistenza: è la legge del più forte (o forse quella divina) che il più debole debba soccombere. Tuttavia l’epilogo potrebbe non essere quello di una tragica ed inevitabile resa: un piccolo ma essenziale spiraglio di libertà fa capolino in un certo momento del film, costruendo uno spazio, anche se fatto solo di gioco ed immaginazione, nel quale il potere, distrutto nella sua sacralità e contestato nella sua legittimità, viene messo alla sbarra, per essere simbolicamente giustiziato.
Enrico Zimara