“Non essere cattivo” è spesso la frase che gli adulti dicono ai bambini quando devono comportarsi bene, vietando quello che può scaturire dal lato malvagio, oscuro, nascosto. Ma come si fa ad non essere cattivi ad Ostia e nella periferia romana più degradata, gli stessi luoghi attraversati da Pasolini e dai suoi “ragazzi di vita”? A metà degli anni novanta due amici quasi “fratelli” tentano strenuamente di dare un senso alle loro giornate, sballandosi in continuazione tra droghe sintetiche, alcool, discoteche e vivendo di spaccio e piccole rapine. Questa è la loro vita: sono emarginati da un progresso che li ha relegati ai margini della società, scarti umani che provano a sopravvivere. Quel mondo è così lontano dalla nostra contemporaneità perché sono passati vent’anni, e non viviamo in quel contesto: ci sentiamo tuttavia così vicini a quei due protagonisti sbandati che vogliono solo una via di fuga. Cesare e Vittorio sono semplici, ma allo stesso tempo così vitali da diventare naturali: Luca Marinelli e Alessandro Borghi ‒ vera rivelazione soprattutto nella scena dell’allucinazione felliniana ‒ sanno misurare molto bene l’essere attore e la capacità di essere mimetici soprattutto nei coinvolgenti e lunghi primi piani. Un microcosmo sociologico e antropologico che sicuramente il regista ha voluto ancora portare alla nostra attenzione, e ci è riuscito grazie agli sforzi dell’amico e produttore Mastandrea, per raccontarci un’epoca, un decennio, quel popolo di borgata, come in Amore tossico, ambientato negli anni ottanta. E ‒ come dicevamo ‒ una piccola storia diversa ma fortemente attuale, dove il lavoro è precario, senza futuro e i sogni falliscono.
Oltre al messaggio pasoliniano di cui il film si fa portavoce, sicuramente questo cinema ci mostra “la lingua scritta della realtà”, con l’uso del dialetto romano, i luoghi autentici e la maggior parte degli attori presi dalla strada. La realtà si impregna di emozioni e passioni, isolando il personaggio in un ambiente che sembra diventare eterno perché creato da luci fotografiche, e questo dà sicuramente fisicità al film. Non è più lo spazio chiuso che manifesta una mancanza, ma qui è la zona aperta che diventa una prigione, dove tutti sono dannati. Le serate mirabolanti e fuori controllo dei due amici sono messe a punto da un montaggio frenetico misto a ralenti che rompe il senso di noia e inutilità sempre opprimente quando si guarda il mare, quando ci si siede al bar dell’angolo, quando si torna a casa all’alba con gli occhi fuori dalle orbite con troppe allucinazioni, per ritrovare la madre invecchiata precocemente dalle sofferenze della vita, la nipotina malata o, più probabilmente, per non trovare nessuno.
Quando si è sotto l’effetto della droga è difficile volersi bene, esternare le proprie emozioni: i due antieroi si divideranno per poi ritrovarsi e ancora, per prendere strade differenti, ma saranno sempre legati da quell’amicizia di sangue. Caligari ha saputo terminare una trilogia filmica completa e matura, prima di morire, in perfetto equilibrio tra il crudo realismo con cui sono sono mitizzati i protagonisti e un poetico sapore da melodramma, capace di segnare il cuore anche dello spettatore più imperturbabile.
di Alexine Dayné