Siamo nell’Argentina degli anni ’80, in piena transizione dal regime militarista alla democrazia. Arquimedes Puccio, padre di famiglia e agente dei servizi segreti militari, si trova improvvisamente senza occupazione. Decide allora di sfruttare le proprie competenze per rapire individui facoltosi, chiedendo un lauto riscatto ai familiari, sicuro della copertura dei suoi superiori. I malcapitati, dopo la reclusione forzata in casa, verranno inevitabilmente uccisi. A collaborare con Arquímedes è la sua famiglia e in particolare il figlio Alejandro, promettente giocatore di rugby. Metafora della parabola politica argentina, la vicenda dei Puccio finirà ovviamente nel peggiore dei modi.
Nel raccontare uno dei casi di cronaca più noti in Argentina, Trapero costruisce un thriller movimentato, scandito da flashback e flashforward, che racconta routine e dinamiche di potere della famiglia Puccio (la subalternità del figlio Alex, la connivenza della madre, i figli alla ricerca di una fuga possibile). Il Clan deve evidentemente molto alla serialità televisiva americana, dai cui moduli attinge profondamente, sia nella costruzione drammatica, ossessivamente incentrata sui ritmi della suspense, sia nel massiccio utilizzo della musica, quasi sempre di marca angloamericana.
Trapero sceglie di adottare, quale principale chiave di lettura del caso, la relazione tra il padre padrone Arquimedes e il figlio Alex: il primo, autoritario, non sembra avere alcun cedimento nel suo violento piano di arricchimento personale; il secondo, pur cedendo alle lusinghe del denaro, mostra spesso qualche resistenza, ma non pare trovare sufficienti motivazioni per costruirsi un’identità al di fuori della famiglia. L’aspetto più significativo del film risulta proprio il racconto dell’ambiente familiare, tra armonia e omertà, analizzato da Trapero alla stregua della più classica delle relazioni coscienza-inconscio, casa-cantina, manifesto-rimosso.
Pur manifestando una certa consapevolezza registica, il film sembra spesso non trovare un registro narrativo prevalente: oscillando tra una sommaria condanna etico-politica e una compiaciuta estetica della criminalità, Trapero non pare voler prendere una direzione precisa. L’approfondimento psicologico dei personaggi risulta spesso troppo esile, non permettendo né una plausibile connessione della vicenda con la situazione politica argentina né una (pur spesso ricercata) tonalità scorsesiana. Ciononostante il film ha l’indubbio merito di gettare luce, con tocco moderno, su una vicenda poco nota, capace di raccontare meglio di tante altre una svolta decisiva nella storia argentina.
di Giulio Piatti