Café Society, quarantasettesimo film di Woody Allen, nonché il primo del regista girato in digitale, ha aperto come opera fuori concorso il Festival di Cannes 2016. Lasciando meno il segno rispetto ad altri suoi film, l’ultimo lavoro dell’ormai ottantenne regista newyorkese si impone come pellicola delicata e di indiscutibile qualità da cui trapela, ancora, l’inconfondibile umorismo alleniano.
Dopo Irrational Man, ambientato ai giorni nostri, Allen torna a collocare le sue storie nel passato. Anni Trenta: Bobby Dorfman, giovane ragazzo ebreo, si trasferisce in cerca di fortuna dal Bronx a Los Angeles dove vive lo zio Phil, impegnato e attivissimo agente cinematografico di Hollywood. Qui Bobby non troverà però il successo professionale bensì la storia d’amore con Vonnie, segretaria dello zio. I risvolti inaspettati della relazione costringeranno il giovane Bobby a fare ritorno nella sua amata New York, dove diverrà un uomo d’affari e si ritroverà ad un certo punto a fare i conti col passato e i suoi illusori sogni di gioventù. E proprio dall’impero imprenditoriale newyorkese di Bobby, il film prende il titolo: Café Society è il night club che dirige ma è anche e soprattutto un’espressione coniata e diffusa nei primi decenni del Novecento che si riferisce alla “gente che conta”, al jet-set brulicante di playboy e miliardari attorniati da attrici e modelle, politici, malavitosi che si riunivano nei locali più alla moda tra fine 1800 e inizio 1900 in città come New York, Parigi, Londra. La voce narrante fuori campo di Allen (Leo Gullotta, nella versione italiana), come in un romanzo, accompagna e rende più fluido l’alternarsi delle vicende secondarie con quella principale incentrata su Bobby e il suo percorso di crescita. La fotografia del Premio Oscar, Storaro, contraddistingue marcatamente le principali ambientazioni protagoniste del film: Hollywood, luminosa, sfarzosa e dalle tinte ocra oniriche e fiabesche, e New York, a tratti cupa e fredda nel suo essere città di gangster ma anche vivace e colorata nei suoi pullulanti festosi locali notturni. La giovane coppia ormai collaudata Stewart/Eisenberg (riuniti per la terza volta sul set), regalandoci sguardi prima sognanti e poi intrisi di rimpianti, convince.
Il film di Allen propone una malinconica storia d’amore con un finale non scontato e improntato sulla metafora del “sogno”, nostalgici e accurati ritratti di New York e Hollywood anni Trenta, in cui la musica jazz e i costumi svolgono un ruolo primario ed essenziale. E’ presente un susseguirsi, in certi frangenti un po’ forzato, di citazioni di protagonisti di spicco dell’ambiente cinematografico, e non solo, di quegli anni, con personaggi carichi di stereotipi e ben caratterizzati, a cui lo sceneggiatore concede dialoghi ritmati e freddure riguardanti – verrebbe da dire “come al solito” trattandosi di un film di Allen – la vita e la morte (“Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo e un giorno ci azzeccherai”), la religione, il cinema, e ultimo, ma certo non per importanza, l’amore.
di Loredana Iannizzi