A Teheran una palazzina minaccia di crollare e viene così sgomberata dagli inquilini. Emad e Raana, attori in una compagnia più o meno stabile, vanno a vivere in un appartamento che conserva ancora gli oggetti dell’ultima inquilina, probabilmente una prostituta. Qui, per una serie di sfortunate fatalità, Raana subirà una violenza.
Il cliente, fresco vincitore del premio Oscar per il miglior film straniero, è una conferma e insieme un’evoluzione nella poetica di Ashgar Farhadi. Se il raffinato lavoro registico, approntato alla sottrazione e alla dissezione psicologica, confermano uno stile salito alla ribalta internazionale con Una separazione, ne Il Cliente sono presenti, in più, componenti noir e metateatrali. Emad e Raana, infatti, recitano ogni sera La morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, le cui assonanze (e dissonanze) con le vicende narrate balzano immediatamente agli occhi: influsso della vita sul teatro, del teatro sulla vita, teatralità del quotidiano, quotidianità del teatro.
Il film non si esaurisce tuttavia nell’elaborazione di uno stilema che il cinema da camera occidentale aveva già ampiamente sviscerato, ma lo immerge in un’interessante pluralità di livelli. In primo luogo Farhadi fa suo una sorta di “realismo interiore” che non analizza direttamente i fatti – non sappiamo che violenza è stata commessa, non sappiamo chi è l’inquilina – ma i loro sintomi sui personaggi, scrutati a fondo dall’insistente occhio della macchina da presa. In secondo luogo brilla, nell’apparente interiorità del dramma, una penetrante critica al costume e al buon senso, morale prima ancora che politica: dai giudizi dei vicini alla poca fiducia nelle forze dell’ordine, passando per la possibile chiusura del teatro, il film sparge velati indizi sulla pervasività della censura in una Teheran apparentemente moderna, ma al tempo stesso propensa all’immobilismo e all’accettazione. In terzo luogo, Farhadi imposta un lucidissimo discorso filosofico sulla sottile soglia che divide e trasforma la ricerca della giustizia dal suo altro, sia esso l’autocensura, l’istinto alla vendetta o la pietà. Nel gioco delle parti che divide teatralmente Emad e Raana si intrecciano sensibilità differenti, con tempi di accettazione differenti, che interrogano a fondo la natura stessa della coppia (e in fondo dell’umanità).
Farhadi, resistendo alla tentazione di risolvere il finale, mantiene così in equilibrio i molteplici livelli della narrazione, suggerendoci che il futuro della coppia (dell’arte, dell’Iran o, persino, dell’uomo) non deve e non può risolversi nella mera accettazione degli eventi, quanto nello scarto non filmabile di un atto.
di Giulio Piatti