Isidoro, chiamato Easy, era campione italiano di go kart e una promessa della formula 1 fino a quando ha cominciato a prendere peso. Oggi vive con la madre fanatica dell’attività sportiva e si imbottisce di antidepressivi e playstation. Un giorno suo fratello Filo, piccolo imprenditore, gli chiede – in modo tutt’altro che ortodosso – di portare la salma di un operaio ucraino morto sul lavoro al proprio paese d’origine. Finalmente, il trentacinqueenne ha un obiettivo che lo smuove dal suo torpore: tornare alla guida anche se di un carro funebre.
Al suo sorprendente esordio cinematografico, Magnani ci presenta un Candide che torna in un mondo profondamente cambiato da quando lui si è isolato ma anche un sottobosco imprenditoriale italiano privo di scrupoli, rappresentato dal fratello che vuole nascondere una morte bianca sfruttando l’ingenuità e la passione repressa per la guida di Easy. Presentato allo scorso Festival di Locarno, con un premio come Miglior Attore a Nicola Nocella, il film ha un protagonista eccezionale e una consapevole idea di regia, adatta a ciò che si vuole raccontare: un’Odissea buffa e poetica, piena di grazia surreale e di comicità straniante, immersa nell’estrema periferia dell’Est Europa. Con immagini curate e dal notevole impatto panoramico per dare forma a un mondo e a uno stato d’animo, Easy è un film di confini, un western come lo girerebbe il regista finlandese Aki Kaurismäki. Sebbene la sceneggiatura non rispetti sempre il giusto ritmo del racconto e la risata risulti a volte poco ispirata, i silenzi sono carichi di senso, di lampi poetici tanto goffi quanto inattesi e ogni inquadratura si riempie del faccione dell’ottimo Nocella, lanciato da Pupi Avati ne Il figlio più piccolo. Una recitazione di metodo e sottrazione, e il risultato è una maschera infantile eppure con dei tratti angosciosi, frutto anche dell’abnegazione borderline dell’attore, che ha preso venti chili in più per il ruolo. Easy è un personaggio che fa sorridere per la sua genuinità ma che suscita anche tenerezza per la sua incapacità di esprimersi. E non si tratta solo di una dificoltà linguistica ma soprattutto di una mancanza di introspezione dovuta ad un ambiente familiare oppressivo ed a delle dipendenze da eliminare. Il morto, come unico compagno di viaggio, rappresenta la metafora del suo corpo, che è stato dimenticato ma a cui non è mai stato detto addio. Un modo di attraversare un lutto interiore per una vita che ormai è giunta a termine proprio a causa di un ostacolo corporeo, un peso che ora è costretto a portarsi letteralmente dietro fino alla definitiva sepoltura. Un’opera prima fra favola di formazione e realismo, che prevale quando vi è interazione tra il protagonista e l’ambiente circostante, le persone che incontra, specchiando la sua solitudine in quella degli altri, trovando disinteressato avvicinamento nel punto più lontano dalla sua playstation.
di Alexine Dayné