Victoria, quarto film del regista Sebastian Schipper (noto in Italia principalmente per Lola Corre), potrebbe apparire come un’opera pretestuosa o, tutt’al più, come un puro esercizio di stile: si tratta di un unico piano-sequenza di due ore abbondanti (terzo tentativo, ci dice il regista), che si ricollega a precedenti illustri nella storia del cinema, da Nodo alla gola, passando per Arca Russa sino al più recente Birdman. Più che alla riflessione meta-teatrale di Iñarritu o alla poesia filmata à la Sokurov, Victoria sembra rifarsi al film di Hitchcock, con cui condivide l’uso espressivo – più che temporale – del mezzo tecnico: il piano-sequenza è infatti utilizzato da Schipper come chiave di volta per immergere lo spettatore in una storia selvaggia, forsennata.
Fuori da un locale notturno, intorno alle quattro di mattina, una giovane barista spagnola, Victoria, incontra e poi segue, nelle loro scorribande, quattro ragazzi berlinesi. Ben presto si innamora di uno dei quattro, Sönne, e, senza soluzione di continuità, viene coinvolta in una vera e propria operazione criminale. Victoria, perlomeno formalmente, è un film sulla percezione, ovvero sul rapporto tra stimolo e reazione: percepiamo infatti la realtà insieme ai protagonisti, respiriamo letteralmente attraverso i loro movimenti e le loro scelte. La rabbiosa mobilità della macchina da presa, posta spesso alle spalle dei personaggi, filma, per ogni blocco narrativo, il momento di innesco dell’azione, il suo proseguire o il suo arretrare, la sua evoluzione come la sua involuzione: Schipper ci fa penetrare così in un ambiente (qui coincidente con il freddo ma affascinante quartiere Kreuzberg) abitato dall’animalesca potenza dei quattro amici berlinesi e dall’intraprendente curiosità della ragazza, tra fascinazione per l’illegale – nel quale l’impulso alla vita gioca continuamente con una segreta volontà di morte – e un implicito coming of age (non a caso ambientato a Berlino, da qualche anno mecca dei ventenni europei in cerca di un contemporaneo rito di passaggio). Il film è, come ci si aspetterebbe, carico di suspense e capace di accumulare felicemente fughe, violenze, balli, commozione, ansia, risate e preoccupazioni, fino allo scioglimento finale (ovvero all’arresto – morte? – della macchina da presa): i vorticosi cambi di registro descrivono così una serie di movimenti quasi animali, in grado di attraversare e animare i personaggi, per i quali lo sfogo quasi ferino delle proprie pulsioni si rapporta ogni volta a un mondo ostile, freddo e pericoloso.
Victoria è insomma un’opera riuscita e non soltanto in senso strettamente tecnico: la straordinaria capacità dell’operatore Sturla Brandth Grøvlen funziona proprio perché riesce a captare e trasmettere le sensazioni dei protagonisti, dislocando la vertigine del thriller verso un registro pulsionale: la macchina da presa si trasforma, da punto di vista sul reale, in materia di espressione, tonalità, atmosfera.
di Giulio Piatti