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chiamami col

Chiamami col tuo nome – Luca Guadagnino

“Chiamami con il tuo nome, io ti chiamerò con il mio” è la frase che Oliver pronuncia ad Elio quando cede al sentimento per ribadire che l’amore non è possesso di una cosa ma espropriazione di sé e desiderio dell’altro, come diceva Lacan. In effetti questo film è la conclusione di quella che Guadagnino ha chiamato la “trilogia del desiderio”, dopo Io sono l’amore e A bigger splash. Dall’amore eterosessuale la macchina da presa di Guadagnino si sposta a quello omosessuale senza però affermare un’identità o una scelta. E’ l’imprevisto che spiazza quello che sei o che credi di essere e si insinua nel prescritto: in quell’età adolescenziale così difficile ma dove tutto è possibile.

Timothée Chalamet incarna in maniera sublime i turbamenti e l’energia del diciasettenne Elio, figlio di un docente di archeologia che invita ogni anno nella villa a Crema un suo studente per terminare il lavoro di dottorato. Oliver, ventiquattrenne e americano, arriva a casa Pearlman nell’estate del 1983 e viene prima contemplato, ammirato, avvicinato, accerchiato da Elio e poi diventa corpo possente e perfetto come quello di una statua greca, che risorge dal lago. E questa bellezza idealizzata che diventa amore assoluto per l’adolescente ma anche per lo stesso Guadagnino si ritrova e viene condensata negli spazi, nel tempo e negli oggetti.

La campagna della bassa cremonese, la luce calda dei pomeriggi estivi, la frescura di uno stagno, l’atmosfera languida (che ricordano le ambientazioni care e tipiche di James Ivory, qui sceneggiatore del film ispiratosi al romanzo omonimo di André Aciman) sono trasformate nel terreno di una disputa personale tra l’abbandono e la passione, il piacere e la conoscenza, la sublimazione e l’atto. Il tempo può essere dolce, dilatato e inavvertibile come nello splendido finale con il primo piano di Elio, oppure misurato ora per ora, con un orologio che torna di continuo in campo. La stessa ricostruzione storica dei primi anni ottanta, accurata, precisa, eppure mai insistita, poggia in realtà su una revisione idilliaca e nostalgica di una giovinezza elitaria e quasi inesistente. E infine la casa aristocratica, protagonista con le sue stanze e gli oggetti come in un film di Visconti, con le sue porte che sbattono, i suoi solai, il suo pianoforte, i suoi libri letti sul divano, significano e parlano.

L’importante dunque è vivere quel desiderio e non bloccarlo perché come dice il padre a Elio “soffochiamo così tanto di noi per guarire più in fretta che a trent’anni siamo prosciugati, e ogni volta che ricominciamo con qualcuno diamo sempre di meno”.

Dentro ciascuno di noi c’è una parte del nostro essere che avrebbe voluto avere genitori come i Pearlman con il sapere emotivo da trasmettere ai figli e sicuramente una parte, a prescindere dall’omosessualità, avrebbe voluto vivere questo tipo di storia d’amore e Guadagnino, che ha osservato e imparato molto da Bertolucci “padre” soprattutto da Io ballo da sola, ci dimostra che alla fin fine il desiderio è il desiderio d’essere. Efilm come questi ci permettono non di ascoltare una storia, ma di viverla.

di Alexine Dayné

 

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