Takara – La notte che ho nuotato è diretto da un francese, Damien Manivel, e da un giapponese, Kihei Igarashi. In qualche modo quindi, allargando lo sguardo, è come se in questa tenerissima fiaba invernale si incontrassero e venissero rielaborate alcune tradizioni delle due cinematografie d’appartenenza. Si respirano per esempio l’aria e le suggestioni del realismo poetico transalpino, con la realtà filtrata dalla tipica atmosfera eterea, poetica e quasi irreale, così come dal cinema francese riemerge quell’attenzione all’infanzia e alla sua voglia di fuga, fisica o interiore, che unisce, per esempio, Jean Vigo a Louis Malle e a Francois Truffaut. Dal cinema del Sol Levante, invece, emergono le suggestioni di quei racconti di crescita tipici di certa animazione (dalle giovani eroine di Myazaki ai giovani mezzi lupi/mezzi umani di Wolf Children), con il fantastico che fa capolino nell’atmosfera fiabesca di fondo, così come emergono in filigrana la centralità dei rapporti padre/figlio e famigliari tipica di cineasti come Hirokazu Kore’eda.
Influenze e rimandi rielaborati dai due registi in un film estremamente tenero e poetico, capace di esaltare con dolcezza la voglia di scoprire tipica dell’infanzia e la sua capacità di rielaborare e manipolare il quotidiano con le armi della fantasia. Protagonista di Takara – La notte che ho nuotato, film diviso in tre atti (“Il disegno”, “Il mercato del pesce” e “Un lungo sonno”), è Takara, un bambino il quale, dopo aver passato la notte insonne, decide di marinare la scuola e si reca in città, vagando per le strade ricoperte di neve e affrontando con curiosità ciò che lo circonda, trovando continue fonti di gioco, stupore e, talvolta, pure perplessità. Probabilmente la sua intenzione è andare a trovare il padre che lavora al mercato del pesce e che vede molto raramente a causa dei turni di lavoro notturni – e intorno a questa ricerca ruotano molte delle piccole avventure vissute dal giovanissimo protagonista – o forse, mosso dalla curiosità, vuole osservare e scoprire ciò che lo circonda e “il mondo dei grandi”.
Damien Manivel e Kihei Igarashi scelgono uno stile essenziale, ma non minimalista né tanto meno inerme e anonimo, che osserva dalla giusta distanza le avventure e il vagare del bambino e che ci permette di entrare nella sua interiorità e nelle sue sensazioni. La semplicità dello stile contribuisce anche a esaltare la dolcezza di fondo, talvolta più allegra e talaltra con un sottofondo più malinconico, che il film trasmette, così come l’interiorità curiosa, affascinata, perplessa e stupita del giovinotto viene esaltata dall’atmosfera fiabesca e stralunata di fondo, per la quale diventano decisive scelte come l’assenza dei dialoghi.
Edoardo Peretti