«I migliori anni della nostra vita sono quelli ancora da vivere». Si apre con questa citazione di Victor Hugo l’ultimo capitolo della trilogia di Claude Lelouch iniziata nel 1966 con la pellicola Un uomo, una donna, proseguita nel 1986 con il meno fortunato Un uomo, una donna oggi. Protagonisti delle opere Anouk Aimée e Jean-Louis Trintignant: prima poco più che trentenni, poi cinquantenni, infine quasi novantenni, sempre, se non proprio innamorati, sicuramente complici. Lui interpreta Jean-Louis Duroc, una volta pilota di auto da corsa, ora ospite silenzioso e solitario in una casa di riposo. Si ricorda poco di ciò che ha vissuto: le macchine, la velocità, ogni tanto il figlio Antoine e lei, soprattutto, anche se quando la vede non sa bene che è lei. Lei è Anne Gauthier, ha un negozietto di cose per la casa (coperte, cuscini, tazze rosa-verde-azzurro confetto), parla con voce ferma, soppesando le parole e ricorda tutto ciò che ha vissuto con quell’uomo, una storia finita tanti anni prima perché troppo perfetta, come racconta lei stessa. Quando Antoine le chiede se le va di andare a far compagnia al padre per qualche ora, lei dice sì, riaprendo nuovamente finestre accostate da tempo.
L’opera oscilla continuamente dall’anno 1966 al presente: in un intervento di collage cinematografico funzionale e romantico, ci vengono mostrati i momenti d’amore vissuti nella passata finzione cinematografica, alternati ai dialoghi degli amanti oggi, prevedibilmente malinconici, sorprendentemente brillanti. Se i visi delle immagini colorate e piatte di adesso sono molto diversi dal vecchio film in bianco e nero, i gesti rimangono invece immutati. Nel giardino della casa di riposo, chiacchierando di sogni, dimenticanze, e monotona quotidianità, Jean-Louis riconosce Anne proprio dal movimento della mano, lento e preciso, che compie la donna per tirarsi indietro i capelli. Il passo successivo è la fuga, a bordo di una 2CV grigia, come due intrepidi Bonnie & Clyde, in viaggio tra sogno e realtà, presente e passato, evanescenze e certezze.
Coraggiosa, nonché rara operazione di messinscena di attori non più giovani, girata in soli tredici giorni, ci si chiede fin dall’inizio come possano definirsi gli anni più belli della vita quelli che i protagonisti novantenni devono ancora vivere. Il film sembrerebbe darci questa risposta: finché si è vivi, si può vivere. Si può guidare con la capote abbassata, si può andare al mare a farsi i selfie sul bagnasciuga, si può trascorrere del tempo assieme, forse poco, ma comunque luminoso, pensando ai ricordi passati, creandone di nuovi.
Carolina Zimara