Allievo di Sokurov, Kantemir Balagov, quasi trentenne, realizza il suo secondo lungometraggio Dylda (in Italia con il titolo La ragazza d’autunno) e conferma una consapevolezza e maturità del mezzo cinematografico impressionante. Un dramma femminile, ispirato al libro di Svjatlana Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna, che narra la storia di due figure distrutte mentalmente dal secondo conflitto mondiale nella città di Leningrado del 1945. Presentato nella sezione Un certain regard a Cannes, il film è stato vincitore del premio alla miglior regia. Inoltre, al Torino Film Festival, Vasilisa Perelygina e Viktoria Miroshnichenko, attrici emergenti, hanno ottenuto il premio come migliori protagoniste.
Il conflitto è appena terminato, la guerra non è mai mostrata, ma è visibile nelle sue conseguenze sui volti e sui corpi scolpiti dei personaggi che ci mostrano tutto il dolore e malessere che stanno continuando a vivere. Fin dalla prima sequenza, con primi piani, inquadrature strette e uso della macchina a mano, Balagov mostra il trauma come elemento protagonista dell’opera con una delle due donne, la timida e bionda Iya, detta “giraffa”, affetta da un morbo che periodicamente blocca il suo corpo, la immobilizza. Anche Masha, viene mostrata, come un carattere rotto; la giovane donna non sembra realmente essere in grado di comprendere ciò che gli sta accadendo intorno. I colori, i costumi, la scenografia e la fotografia richiamano nello spettatore la sensazione di un ambiente vivo e amorevole anche se il film mostra esattamente l’opposto, catapultandoci in un mondo oscuro, egocentrico, in cui si ricerca esclusivamente il senso dell’esistere che Masha rintraccia nel folle desiderio di concepire un figlio quando sa di essere ormai sterile, mentre Iya inizia a intraprendere un rapporto ambiguo con la sua amica.
Masha ha bisogno di Iya (e viceversa) e fra le due si genera una vera lotta di potere per il controllo dell’una sull’altra. Il regista opera una sovversione narrativa: demolisce l’eroismo “maschile” dei soldati per approfondire la conseguenza che quella guerra ebbe sulle donne. Le due protagoniste assumono un ruolo nuovo, fatto di sacrificio e di responsabilità, con scelte coraggiose quanto dolorose, spesso contro l’etica e la morale: l’aborto, l’eutanasia e un’arcaica pratica di “utero in affitto” sono decisioni che portano avanti con freddezza e disperazione, pur di salvare un’idea di femminilità calpestata ed umiliata.
La regia mostra la durezza del mondo con scene di grande impatto emozionale: la danza di Masha nel suo vestito e Iya che gioca con il bambino sono scene di semplice quotidianità che arricchiscono notevolmente la storia poeticamente e se da una parte l’ocra trasmette il concetto di perdita e di trauma, dall’altra il colore verde annuncia speranza per una nuova vita. La narrazione rimane sospesa tra dolore e speranza, tra guerra e pace, tra morte e vita.
Alexine Dayné