Presentato in concorso all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, America Latina è il terzo lungometraggio dei gemelli Fabio e Damiano e si trova immerso nel florido panorama espressivo italiano degli ultimi anni. Da una parte, parliamo del cinema che si lega in maniera indissolubile all’oggetto rappresentato come quello di Gabriele Mainetti o Martin Eden di Pietro Marcello che fa dell’attaccamento al testo il suo riferimento. Dall’altra, ci sono i film che scelgono di rappresentare una realtà lontana con immagini che rimarcano la distanza da ciò che raccontano. Lo spazio può essere archetipico come in Ariaferma e Il buco oppure è definito da coloro che lo abitano, in Favolacce.
Per i D’Innocenzo, i luoghi diventano un pretesto per innescare una tragedia atavica insita nei rapporti parentali tra le persone. La periferia di La terra dell’abbastanza, come quella degli altri due film, raccoglie il vissuto segnato e lacerato dalle persone che lo compongono. Questo abitare si sgretola dalla moltitudine degli adulti e del guasto emotivo che marcisce al loro interno.
Al dentista Massimo, rispettabile uomo sposato, padre di due figlie succede proprio questo. Si rompe una lampadina e si spegne una luce: scende in cantina e vi trova legata una bambina della quale si sorprende.
America Latina si colloca proprio al centro tra il genere thriller che avvicina le paure del protagonista a quelle dello spettatore e l’astratta rappresentazione della mente di un uomo felice eppure smarrito. Latina è la città nominata, ma è solo traccia geografica evocata dalla voce di un telegiornale. Un’America appunto.
E’ essenziale e fa emergere conflitti e contraddizioni. La prima contraddizione è all’inizio, tra le strade vuote con strutture abbandonate e la villa di Massimo al centro di paludi. La seconda riguarda due modi di abitare, tra ciò che sta sopra e ciò che sta sotto la casa, una ridente famiglia e una bambina trattenuta in maniera atroce. E il conflitto è tra il padre e il figlio. Si detestano, ma il secondo si adopera per essere figura paterna migliore.
Le scenografie, le luci (dal blu si passa al verde e infine al rosso di Suspiria) e i movimenti di macchina rappresentano la dispersione e l’insicurezza, incisioni nel volto di un Elio Germano calvo e alieno. Massimo è rappresentazione perversa, incarna in sé tutti i ruoli famigliari, indipendentemente dal genere. Oltre a essere figlio e padre, i riferimenti all’acqua (la cantina-grembo da lui riempita di liquido e la piscina con cordone ombelicale) ne fanno una madre e un mostro che accentua l’afflato gotico di cui tutto il film è pervaso.
I fratelli rimpiazzano la realtà favolistica di Favolacce con l’incubo psicotico di America Latina, dove le immagini sono claustrofobiche (primi piani, prospettive alterate, riflessi) e le musiche sono dei Verdena, i quali hanno per l’occasione prodotto un nuovo disco.
Alexine Dayné