Sandra (Clare Dunne, anche sceneggiatrice), alta e forte, capelli neri sempre legati, unica con la sua macchia scura sotto l’occhio sinistro, è costretta ad andarsene dalla propria casa con le sue bambine Emma e Molly, nel giorno in cui il suo compagno scopre il gruzzolo di soldi che lei aveva messo da parte proprio per tentare la fuga da lui. Quel giorno, la consueta violenza dell’uomo nei confronti della donna si fa più feroce: la prende a calci, a pugni, le rompe una mano ma, grazie alla complicità della figlia maggiore, riescono tutte a mettersi in salvo. Iniziano così la vita all’infuori della situazione di violenza, fatta perlopiù di soluzioni abitative precarie, lavori sottopagati, paura che il pericolo sia sempre in agguato. Ma Sandra, pur soffrendo, non spera di ricucire i rapporti con l’uomo né di cambiarlo (fase iniziale invece frequente nelle donne sopravvissute alla violenza): si concentra unicamente sul ricostruire la sua vita, per sé stessa – Herself appunto- e per le sue figlie.
Il film in effetti punta tutto sul concetto di ri-costruzione, servendosi dell’immagine più concreta e al contempo più metaforica in tal senso: la casa. Senza ricorrere ai consueti cliché di pietà o paternalismo nei confronti delle donne sopravvissute, il film ci mostra una protagonista che, stanca di attendere un’abitazione tramite sussidi, costruisce la sua indipendenza edificando la sua casa. Chiedendo aiuto per l’impresa a un gruppo di amici, Sandra si farà così portatrice di un duplice messaggio: l’importanza di creare la propria autonomia da un lato e la capacità di chiedere aiuto dall’altro, in un contesto comunitario di sostegno reciproco.
Herself ha l’impagabile pregio di mettere in scena senza retorica due aspetti legati alla violenza di genere che solitamente vengono ignorati o ritenuti secondari: la violenza assistita e la vittimizzazione secondaria. La violenza assistita è il fare esperienza da parte dei/delle bambini/bambine di qualsiasi forma di maltrattamento nei confronti di figure per loro significative. Molly, nascosta nella casetta in giardino, vede il padre prendere a calci la madre in cucina e ne rimane traumatizzata, tanto da chiudersi nell’armadio e farsi pipì addosso ogni volta che è costretta a recarsi alle visite programmate con il padre. Dopo una serie di visite mancate, il padre, del tutto incurante delle problematiche di Molly, porta in tribunale Sandra, accusandola, tra l’altro, di inventare scuse per non fargli vedere la figlia. Ecco che qui assistiamo alla vittimizzazione secondaria, ovvero alla reiterata messa in discussione della parola della vittima, adducendo così a una qualche co-responsabilità della stessa nella situazione di violenza. La giudice chiede: ma perché non l’ha lasciato prima? La risposta di Sandra è esemplare: «Mi continuate a chiedere perché non l’ho lasciato prima, senza chiedere a lui perché non ha mai smesso».
Presentata al Sundance Film Festival, assieme alla serie Maid Herself, è una delle migliori opere recenti sul tema della violenza sulle donne agita da uomini, capace anche di portare sullo schermo un senso di rara e sincera comunità.
Carolina Zimara