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Un bel mattino

Un cinema dei sentimenti, in cui il ruolo da protagonista è appannaggio delle emozioni. Un bel mattino si nutre del vissuto personale di Mia Hansen-Løve che lo scrive pensando già agli attori che avrebbe desiderato intrepretassero i vari ruoli e dirige la sua opera realizzando un racconto intimo che consente allo spettatore una piena ed empatica identificazione. Lo sguardo si apre sulla vita di Sandra, mamma vedova e single, in un momento delicato, triste e gioioso al tempo stesso, che vede contrapporsi l’avanzare inesorabile della malattia neurodegenerativa che ha colpito il padre e il coinvolgimento travolgente in una relazione amorosa inaspettata. Un dialogo silenzioso unisce queste due esperienze forti e intense, dai risvolti opposti, e si traduce negli sguardi e nelle espressioni della splendente Léa Seydoux (finalmente e felicemente nei panni di una donna “normale”, come ha dichiarato l’attrice). Il montaggio ne mostra l’alternanza, saltando da una situazione (e persino da una stagione) all’altra, in un susseguirsi di luci e colori altrettanto diversi. La vicenda pesca dal quotidiano che si concretizza nei luoghi del film: gli spazi privati, le case, in cui si intrecciano le relazioni tra i protagonisti, ma anche quelli pubblici e condivisi con gli altri, vale a dire i mezzi di trasporto, gli ospedali e i parchi.

Il personaggio di Sandra e quello della figlia Linn sono spesso teneramente sovrapponibili, ognuno, a modo suo, alla prese con la perdita di una figura di riferimento fondamentale e la conseguente necessità di ricevere attenzioni e protezione. Per entrambe, gli eventi di questo momento particolare della vita si tradurranno in una fase di crescita, difficile ma inevitabile. La malattia che ha colpito il padre di Sandra ne cancella gradualmente la personalità e l’identità, anticipando quella che sarà poi la sua scomparsa definitiva, che porterà via anche il corpo, creando il vuoto percepibile dell’assenza. La musica che l’uomo amava e i libri di sua proprietà sono la sua eredità emotiva e intellettuale, quasi la trasposizione della sua anima, nonché un ultimo tentativo della figlia per “trattenerlo”. La donna dovrà lentamente, dolorosamente e silenziosamente imparare a lasciare andare, ad accettare la morte, per far spazio al nuovo e aprirsi alla vita.

Pascal Greggory, nei panni del genitore malato, è riuscito a calarsi nella parte con realismo e autenticità e la relazione padre-figlia è suggestiva tanto è vera.

La regista ha scelto anche questa volta di filmare in pellicola 35 mm, affezionata alla maniera in cui questa modalità di girato rende poetiche le immagini.

Una storia universale di quotidianità disarmante, che parla e fa breccia nel cuore di tutti e, forse anche per questo, accolta con grande apprezzamento dalla critica internazionale.

Il film ha il merito di affrontare le sofferte tematiche della malattia e della perdita, senza cadere nel didascalico, nel banale e nel dramma esasperato. Una semplice e sensibile rappresentazione delle sfumature dell’esistenza di ognuno di noi, influenzata e condizionata da quella degli altri che, in maniera incontrollabile e inarrestabile, spesso imprevedibile e quasi magica, si frattura, destruttura, scompone per poi ricomporsi e ricrearsi giorno dopo giorno.

Loredana Iannizzi

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