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Benedetta

Benedetta arriva sugli schermi italiani quasi due anni dopo la presentazione al Festival di Cannes 2021. Oltre il ritardo dovuto alla pandemia Covid, il film ha fatto fatica ad uscire in Italia per le richieste esose della produzione ai distributori, ma soprattutto per il carattere della storia che colpisce la sensibilità religiosa, patria del cattolicesimo. Tratto dal saggio della storica Judith Cora Brown, “Atti impuri: vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento”, Verhoeven, insieme al co-sceneggiatore David Birke, ha
scritto una sceneggiatura in cui la vicenda della mistica Benedetta Carlini è immersa nelle ossessioni e negli stilemi del cinema del maestro olandese, riprendendo gli eventi storici e la vita della monaca, ampliando l’aspetto sessuale e inventando un finale immaginario. Verhoeven è dichiaratamente ateo, ma fin da giovane ha sempre inteso la religione come strumento di esercizio del potere e come insieme di costrutti mentali e credenze che avevano un impatto sulla psicologia delle persone.

Benedetta attraverso l’affermazione del rapporto esclusivo con il messia non fa altro che proclamare la sua volontà all’interno della Chiesa e della comunità di Pescia, che la eleva a ruolo di santa protettrice. L’utilizzo delle visioni e di segni sulla carne non è altro che un’attestazione del suo potere nei rapporti di forza, da un lato, all’interno della gerarchia ecclesiale e, dall’altro, nelle rivendicazioni del femminino sul mascolino. L’imposizione della propria individualità avviene anche attraverso la sessualità praticata con Bartolomea, che è anche un rapporto sociale tra una ricca e colta donna e una ragazza povera e senza istruzione che conosceva solo la violenza del padre e della famiglia. Benedetta agisce come un demiurgo, sfruttando la forza della fede religiosa. Una volontà di potenza che fin da subito è rappresentata da rituali che prevedono la messa in scena della santità. Così, come Verhoeven utilizza la messa in scena cinematografica per raffigurare le sue ossessioni, Benedetta concretizza le proprie visioni con artefici suggeriti. Anche l’utilizzo di una voce artefatta, che Benedetta usa in momenti topici, in cui viene messa in discussione la sua santità, più che “divina” appare una performance attoriale di fronte alle sue sorelle e ai frati. Verhoeven gira Benedetta nei luoghi reali dove è vissuta la vera suora. La luce riempie l’inquadratura di campi lunghi che compongono la grammatica visiva e rispecchiano una verosimiglianza storica. Gli interni del convento sono girati in un paio di abbazie francesi, in cui il lavoro della messa in scena è compiuto dalla sottrazione e sull’essenzialità del profilmico e viene utilizzata una luce naturale che passa attraverso le finestre, gli usci e i pergolati. Le celle del convento di notte sono illuminate dalle candele. Infine, il digitale viene utilizzato nelle sequenze delle visioni di Benedetta. Siamo di fronte all’allestimento di un immaginario collettivo composto di simboli e totem, religiosi e laici che si compenetrano uno nell’altro.

Alexine Dayné

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