Da L’amore bugiardo a Hungry Hearts, passando per Viviane, il 2014 sembra a tutti gli effetti consacrato all’indagine della violenza che si genera all’interno della vita di coppia, intesa come dispositivo di potere e sopraffazione. Se però i lavori di Fincher e Costanzo tendono a riattivare una tradizione cinematografica occidentale – Bergman, Polanski e Cassavetes su tutti – Ronit e Schlomi Elkabetz si volgono verso il mondo ebraico, donando così al film una coloritura differente.
Dramma teatrale, girato integralmente all’interno di un tribunale rabbinico, Viviane racconta l’interminabile storia del processo di divorzio dei coniugi Amsalem. Se la bella Viviane, dopo decenni di liti e incomprensioni, è veramente decisa a ottenere la separazione, Elijah, uomo di fede, è altrettanto fermo nel proposito di rifiutare la proposta della moglie. La vicenda si svolge in uno spoglio tribunale rabbinico che applica rigidamente la Torah: in casi come questo, è soltanto l’uomo a poter liberamente decidere di concedere il divorzio.
Il processo, coordinato da tre anziani rabbini, si protrae a fasi alterne per circa cinque anni, portando allo scoperto i più intimi momenti della vita dei due coniugi. Il tribunale diventa un campo di battaglia tra Viviane, difesa dall’avvocato e amico Carmel e Elijah, aiutato dal fratello Shimon. Il film scava così nel carattere dei due personaggi, nelle loro fragilità, nella loro testardaggine: si scopre ad esempio il violento sadismo di Elijah, che all’ombra del suo amore per Viviane, rivela un’implacabile crudeltà nel voler umiliare sino in fondo la moglie.
La vicenda assume così evidenti accenti kafkiani, che mettono a nudo i paradossali meccanismi del tribunale, impegnato, nel cieco rispetto di una tradizione, a perpetrare una profonda ingiustizia nei confronti di Viviane. Da Kafka, il film trattiene un umorismo sardonico capace talvolta di distendere la drammaticità degli eventi.
L’imperante maschilismo della chiusa comunità ebraica viene dissezionato dallo sguardo degli Elkabetz: nell’apparente imparzialità dei tre giudici, affiora sempre qualche parola di simpatetica comprensione nei confronti del marito e nel contempo una velata insofferenza verso le recriminazioni di Viviane. Sarebbe più semplice se la donna tornasse dal marito, definito da più testimoni come marito modello e padre impeccabile.
Dramma da camera, Viviane ricorda La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, nel tentativo di fare dei luoghi un teatro di sentimenti: l’angusto tribunale, che ostacola la libertà di Viviane è filmato alla stregua di una prigione, in un’atmosfera fortemente claustrofobica. Nei passi di Viviane, nella sua lotta per la libertà si vede però brillare la luce di una speranza possibile, al di fuori del soffocante spazio di ingiuste consuetudini. Come ci insegna la stessa escatologia ebraica, il vero mondo è sempre di là da venire.
Giulio Piatti