“Anzitutto non c’è cosa che si possa descrivere se non un desiderio, o i desideri in genere. […]
Il desiderio che qualcosa esista, e poi ci si lavora finché esisterà. Si vorrebbe offrire qualcosa al mondo, qualcosa di più bello, o di più vero, o di più esatto, o di più utile, oppure semplicemente qualcosa di assolutamente diverso da tutto ciò che già esiste. E fin dall’inizio con l’insorgere del desiderio, già si è portati a fantasticare l’oggetto desiderato nella sua diversità dall’esistente, o per lo meno se ne intravede il baluginare. […] Io ho provato un desiderio, e mi è balenata la luce di un film A Berlino, e quindi anche Su Berlino.” (Wim Wenders, Descrizione di un film indescrivibile, in Stanotte vorrei parlare con l’angelo. Scritti 1968-1988, Ubulibri, Milano 1989)
Il cielo sopra Berlino è un lucidissimo atto d’amore nei confronti di una città offesa dalla Storia; una città dove la guerra non è mai finita e il futuro è un’ipotesi obbligata a confrontarsi con le cicatrici ancora visibili nell’architettura e nei muri dei suoi quartieri; una città condannata ad un presente solo apparente, dietro il quale si celano, pronte a rivivere in qualsiasi momento, le immagini di distruzione e di morte del secondo conflitto.
L’idea di popolare la storia berlinese con gli angeli è sorta contemporaneamente da diverse fonti: dalla lettura delle Elegie duinesi di R.M. Rilke, dai quadri di P. Klee, dall’Angelo della storia di W. Benjamin, dalla canzone dei Cure che parla di “fallen angels” e dalla riflessione di un autore che Wenders conosce bene: T.W. Adorno, in cui testimonia che la perdita di autenticità e di capacità di far esperienza dell’uomo contemporaneo risiede in un errato rapporto con le cose e gli oggetti. La condanna degli angeli nel film, come degli uomini nella realtà, è di vivere le cose solo per finta: zum Schein, in apparenza. Gli angeli sono allora una metafora per continuare a parlare di ciò che al regista da sempre interessa: la ricerca di una vita più autentica. Gli angeli protagonisti si riconnettono per questo motivo a tutta quella ricerca di autenticità ed esperienza che era il significato più profondo della cultura del viaggio. E nel film si ha la sensazione di viaggiare tanto, un percorso lungo e in profondità, forse perché lo si sperimenta più nel tempo che nello spazio.
Alla sceneggiatura del film ha collaborato l’amico scrittore Peter Handke e la sintonia fra i due artisti si riconosce nelle immagini, nella visione e nell’approccio alla narrazione di tipo essenzialmente contemplativo: la visione edenica del mondo infantile, assimilato a quello degli angeli, la riflessione intorno alle possibilità e alla funzione dell’arte epica nel mondo contemporaneo, l’utopia di una relazione tra uomo e donna capace di salvare la solitudine reciproca. Il timbro lirico della scrittura di Handke assolve il compito che Wenders gli aveva affidato, quello di creare un linguaggio idoneo a esprimere la condizione angelica e a evidenziare la provocazione che essa rappresenta nel momento in cui viene a contatto con l’universo prosaico della metropoli contemporanea.
“E noi: spettatori sempre, in ogni dove sempre rivolti a tutto e mai all’aperto!” (Rilke, dalla Ottava Elegia duinese).
Alexine Dayné