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Dogman

Alphonse de Lamartine diceva: «Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane»; se poi ne invia cento – come a Douglas, il ragazzino prigioniero di un padre orco e di un fratello sadico – vuol dire che Dio ha proprio a cuore i fragili e gli afflitti, anche se a volte pare scordarseli. Luc Besson aveva in mente un film, e aveva bisogno di un grande attore, e Dio gli ha inviato Caleb Landry Jones: Dogman. Non esattamente un cane.

C’era una volta un ragazzino, Douglas, rinchiuso in una gabbia con feroci cani da combattimento; ma in lui potente era la tenerezza, e i guerrieri armati di denti impararono ad amarlo e a proteggerlo. A loro, Douglas recitava Shakespeare, con loro ascoltava Édith Piaf, e tra loro piangeva e pativa il mondo e le sue ingiustizie. Insieme, impararono a crescere e diventarono una tribù poetica capace di trasformare lo squallore del reale in un palazzo abitato da una corte illuminata sulla cui soglia, come un antico dio egizio, era custode un dobermann: contemporaneo Anubi posto a difesa di un’anima e di un corpo straziati dalle ingiustizie.

In quella corte, tra quel popolo promiscuo e malandato, il dolore si fece orecchio, cuore, intelligenza, angolatura e lente deformante che consentì – a poco a poco – di vedere a fondo nelle cose, fino a giungere alla loro essenza. Tuttavia, per Douglas continuava a non esserci un posto in questo mondo. Ma solo dolore e solitudine. Un eterno esilio. In lui c’erano il maschile e il femminile insieme; la bellezza e l’orrore; il buio e la luce; l’odio e la tenerezza. In lui, però, lo sguardo che si fece visione. Perché Douglas era ambiguo, e in lui tutto aveva più significati. Nulla era certo. E Dogman passeggiava in bilico sui due abissi e, insieme, li incarnava e li contemplava. Dogman era un reietto; ma un reietto poeta. E il “suo popolo”, figlio di un dio minore, dimostrò a lui (e dimostra a tutti noi) che non saremo mai veramente soli finché esisteranno gli ultimi. Quel “popolo” si fece – per lui – i suoi occhi, i suoi orecchi, le sue gambe, e l’estensione di quel corpo storpiato dalla violenza; attraverso la sua magia, Douglas poté finalmente interagire col mondo e realizzare sé stesso. Chi accolse quello sfortunato ragazzino? Chi si prese cura di lui? Chi gli diede un’occasione per incontrare sé stesso e scoprire di possedere una bellezza e un talento? Chi vide la sua anima? Gli ultimi degli ultimi (come al solito!): cani randagi, transgenders, e artisti di una sgangherata compagnia di un fatiscente teatro.

Ma è proprio vero che: “A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. E mai come in questo film è tremendamente chiaro a cosa possa alludere quel sibillino “ha” grazie alla presenza del quale sarà dato e, in caso contrario, sarà tolto… “Ha” è “avere”: avere lo spazio interiore, l’ampiezza di un cuore che consente di fare del mondo non una miserabile “valle di lacrime”, ma una rigogliosa “valle in cui fare anima”.

Ora, siete seduti comodi? O anche scomodi, non importa; l’importante è che siate seduti perché sta per iniziare una storia – una favola nera, in realtà – in cui ci si commuove. Vivaddio, sì! A qualcuno, stasera, potrà succedere di commuoversi. Ed è bello commuoversi di fronte a ciò che può fare tanto male. Direi che, addirittura, può far del bene.

Andrea Damarco

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