The Imitation Game, questa amara e triste storia racconta di come il noto matematico inglese, Alan Turing, assieme ad un gruppo di altri esperti scrupolosamente scelti, sia riuscito a decrittare il codice Enigma, ideato dai nazisti, per comunicare le loro operazioni militari in forma segreta.
Il film è concepito e costruito su tre livelli temporali diversi, ognuno dei quali narra i tre principali momenti della vita del protagonista. Attraverso un meccanismo di flashback in serie, la biografia di Turing si compone infatti man mano: partendo dalla sua fase conclusiva, che va dall’episodio dell’arresto per atti osceni fino al logorante deperimento psico-fisico che lo condurrà al suicidio, si risale indietro fino ad arrivare ad alcuni momenti emotivamente significativi della sua infanzia e della prima adolescenza. Tra questi due estremi si colloca ovviamente la parte più densa della storia: il percorso, travagliato eppure felice, attraverso il quale il genio mette a frutto tutto il suo prodigioso talento e la sua lucida follia visionaria per portare a termine non più solo un semplice incarico conferitogli dal governo inglese, peraltro con non poco scetticismo, ma una vera missione intellettuale che prenderà le forme d’una battaglia personale contro le potenze della logica e dei numeri.
La particolare inclinazione che viene ad assumere questo confronto, rappresentato e vissuto come una lotta serrata e spietata con i misteri della conoscenza, non fa altro che rivelare una volta di più, anche in questo caso, quello che Jung chiamerebbe un tipo psicologico ben determinato, ovvero quella particolare personalità complessa, molto spesso tormentata e non priva a volte di alcune coloriture autistiche, tipica dei geni, che tende ad una sorta di lento e inesorabile auto annientamento. È forse il tema principale che emerge chiaramente anche in questo film: una specie di inconsapevole ma irresistibile aspirazione al sacrificio, all’immolazione che erode pian piano l’esistenza, costringendo ad una vita “dimezzata” – fatta sì di grandi tensioni intellettuali ma rigida e atrofizzata di fronte alla realtà sociale ed emotiva – con la quale deve inevitabilmente fare i conti.
Da questo cliché del genio disadattato e sempre al limite il film, a torto o a ragione, non si vuole discostare, non ottenendo in realtà chissà quali mirabili effetti, ma rendendolo comunque ancora efficace quando questo viene innestato e sviluppato sul tema dell’omosessualità. Il percorso sentimentale-sessuale che viene rappresentato risulta, proprio perché opportunamente tipico, allo stesso tempo credibile ma non scontato, semplice ma non banale, frammentario, forse incerto, ma profondo. In una parola, si potrebbe dire che il tutto è indiscutibilmente inglese, non solo l’ambientazione e la storia, ma anche la regia sembra essersi appropriata di quest’insieme di compostezza, cinismo, di sobrietà ottusa e meschina che raffigura a tutto tondo il mondo e l’esperienza di un grande uomo, inglese.
Enrico Zimara