Amir e Sara, giovane coppia di iraniani, stanno per partire per un lungo viaggio di tre anni in Australia, a Melbourne, per motivi di studio. Li cogliamo, durante l’improvvisa intrusione nel loro appartamento della ragazza addetta alla compilazione del censimento, intenti nella preparazione delle valigie e nello sbrigare le ultime formalità burocratiche per la partenza. Gli animi di entrambi sono tesi e inquieti, ma decisi e ansiosi per la nuova vita che si costruiranno. Questo clima di controllata ma palpabile attesa subisce però un’improvvisa variazione: una porta sbattuta dal vento ed un vetro rotto danno l’avvio, come passaggio da una sorta di punto di non ritorno, ad una parentesi drammatica incontrollabile, che si presenta all’inizio con quella calma e paradossale discrezione tipica delle cose inspiegabili, ma che presto si insinua impetuosa e logorante nella vita dei due protagonisti fino quasi a sconvolgerla irrimediabilmente. La figlia neonata di un loro vicino di casa, a cui stavano badando per qualche ora su richiesta della baby sitter, non si sveglia al rumore dei vetri rotti, né risponde ai ripetuti richiami di Amir…
Di Melbourne, opera prima del regista Nima Javidi, è stato detto molto correttamente da qualche critico che sarebbe piaciuto molto ad Hitchcock. In effetti, in alcuni momenti sembra proprio di rivedere all’opera la sapienza e l’inventiva registica del grande maestro della suspense. La creazione pressoché perfetta di questo clima di tensione crescente e a mano a mano sempre più insopportabile, ad ogni momento prossimo ad una deflagrazione che non arriverà mai, ricorda da un lato quel magistrale gioco di sospensioni rappresentato in Nodo alla gola, dall’altro ripropone, anche se con meno efficacia, l’affascinante controllo emotivo di Ingrid Bergman e Cary Grant in Notorious.
Il meccanismo funziona, Javidi è un buon allievo e fortunatamente non un mero imitatore: infatti, il film non manca di originalità e d’autonomia e sembra stare in piedi con le proprie gambe. Se il modo in cui è girato è indiscutibilmente hitchcockiano, lo stesso non si può dire per il tipo di storia che racconta. Se infatti ad esso mancano quelle dosi di umorismo macabro e di sottile spirito dissacratore tipici del regista inglese, ricercato è invece il tentativo di dare più spessore a tutta quella vasta gamma di sfumature che costituiscono in qualche modo la dimensione sociale della vicenda, mettendo in scena quelle piccole, artificiose premure e quelle rigide formalità che vanno ben oltre il rispetto e l’educazione e che qui sembra possano portare persino ad impedire che una verità, per quanto atroce, venga confessata. Se questo costituisca un pregio o un difetto del film, il regista non sembra ci permetta di stabilirlo con sicurezza, vero è però che, in alcuni momenti, si rischia di pensare che più che un’incapacità emotiva derivata da un forte senso di colpa sia in realtà nient’altro che un estremo eccesso di zelo la causa del silenzio un po’ folle di Amir.
Enrico Zimara