Adattando per il cinema la graphic novel omonima di Posy Simmonds e rimandando con un’assonanza a Emma Bovary, il film di Anne Fontaine ha come fuoco narrativo proprio quella derivazione flaubertiana cui fa riferimento. Martin Joubert, lettore accanito di romanzi, ha lasciato Parigi per la Normandia con la volontà di riaprire la panetteria paterna e condurre una vita in “equilibrio e tranquillità”. Un obiettivo che viene meno quando fa ingresso nella sua esistenza la nuova coppia di vicini di casa, Charles e Gemma Bovery, appena trasferitisi da Londra.
La bellezza seducente della ragazza, la sua capacità di attirare l’attenzione maschile e soprattutto la sua manifesta inadattabilità alla noiosa vita di provincia indurranno l’uomo a un confronto sempre più incalzante tra la vita della donna e l’amato testo letterario dello scrittore francese, che scrisse e ambientò Madame Bovary proprio nella stessa Normandia dove il panettiere incontra Gemma. Il turbamento erotico scatenato in lui dalla splendida nuova arrivata porterà – inevitabilmente – alla folgorazione nei confronti del feticcio: l’amore platonico è irrisolvibile perché non si può confrontare con la realtà. Demiurgo e vittima delle sue stesse illusioni, Joubert si fa narratore e regista di una sua storia sentimentale e drammatica che ricalca gli snodi narrativi del romanzo di Flaubert, ma sul cui ineluttabile destino il panettiere vuole intervenire, per salvare la sorte di Gemma.
Gemma Bovery è una commedia leggera e godibile che gioca con la letteratura per riflettere sulla capacità delle passioni e delle ossessioni di travisare quando non addirittura modificare la fisionomia della realtà. Costruita sulla consolidata bravura di Fabrice Luchini che porta in scena personaggi ostili alla vita, misantropi, pieni di tic e nevrosi come il professore di Nella casa di Ozon, l’opera di Anne Fontaine prosegue la sua indagine sul desiderio e l’immagine della femminilità, ponendo questa volta il corpo come soggetto veicolare dotato di un’attrattiva spontanea e naturale.
Attraverso una fotografia calda e veritiera, la camminata estatica e malinconica di Gemma nella campagna francese e tra le false promesse di un mondo maschile per lo più inafferrabile rimanda il film allo stesso quadro di desolante disarmonia femminile narrato nell’Ottocento e qui reinterpretato, con notevole senso del ritmo e un apprezzabile tocco di originalità, dalla regista. Un guizzo narrativo e beffardo porta il film a chiudere in bellezza quel sottile gioco di rimandi tra realtà e letteratura, conservando allo stesso tempo la sua precisa identità filmica. Un fresco ritratto di amori e passioni di genuina sincerità come inno all’immaginazione e al potere della fantasia.
Alexine Dayné