un monologo al telefono di e con Alexine Dayné per 24 spettatori dietro a un vetro
(…)
Era impreparata
Forse non sopportava
più mondo.
Non sentiva accoglienza
non riusciva a comprendere
e neve imbiancava strade.
(…)
Sono diventata lucente.
Ho ripreso a fiorire.
Ho ripreso a osservarmi.
Un racconto-monologo all’interno di una camera separata da vetri sfocati e da cui la voce dell’attrice passa attraverso ventiquattro cornette del telefono (blu e bianche).
musiche: Depeche Mode – Joy Division – Nuxx – The Cure
bibliografia: E. Bronte – G. D’Annunzio – Euripide – J. Racine – Saffo – L. A. Seneca – W. Shakespeare
A volte succede, a volte no. Questa volta è successo. E si cade. Come Alice nel tronco.
E più profonda sei dentro, più lontana è la stanza in cui cadi.
In cui ti nascondi e in cui ti sottrai al mondo e alla sua durezza.
Ma anche in quella stanza esistono delle regole di sopravvivenza.
E permane il desiderio di non recidere ogni contatto con l’esterno.
E’ pur sempre una buona notizia.
La comunicazione con l’esterno resiste ma attraverso un telefono “antico”, antico come il dolore.
Lo sguardo si limita a frugare attraverso vetri offuscati che limitano la visione, sia per chi guarda dentro sia per chi guarda fuori.
L’immagine di sé è spezzata dentro gli specchi.
Quel che è davanti è dietro e quel che è a destra finisce a sinistra.
Anche il testo è rotto, spezzato, non c’è più trama.
E’ un canto che si sbriciola, accompagnato da musiche che sono la colonna sonora di un’epoca: gli anni ottanta.
E’ un monologo che lo spettatore è invitato ad ascoltare prendendo in mano una cornetta: può farlo o non farlo; a lui la scelta. Ma, se accetta di raccogliere quell’invito – quella cornetta -lo spettatore si trova in una relazione con l’attore che assomiglia a quelle relazioni che non possono far altro che limitarsi ad ascoltare il dolore degli altri senza poter fare nulla.
E non è così poco.
– “Voi non potete parlarmi e io non posso ascoltarvi, a volte funziona così.
Ma io ho una storia da raccontare”.
Così comincia questo spettacolo. Che di Fedra vuole parlare.
Non di Fedra, della Fedra antica, lontana, distante, del suo senso di colpa, del suo sentirsi sporca, sbagliata, storta “dentro e fuori”; e nemmeno del motivo del suo male; ma del suo male; di ogni Fedra e di quel loro dolore; di chi non si piace più o non si è mai piaciuto.
Vuole “dire” dove morde un certo tipo di dolore, quanto fa male. E non perché.
– “E io tutte le parole del dolore voglio nominare, nessuna esclusa, ma occorre rischiare il deserto del silenzio. Fuori c’è troppo casino”.
Alexine Dayné