Qual è la consistenza del tempo? Al di là delle montagne, l’ultimo film di Jia Zhangke, gira intorno a questo quesito. Diviso in tre episodi – di cui il primo costituisce esplicitamente, per linguaggio e narrazione, un prologo – racconta una parabola che parte dal triangolo, alle soglie del ventunesimo, tra la solare Shen Tao e i due pretendenti, il ricco e spaccone Jinsheng e il più dimesso e sensibile Liangzi. Dalla scelta di Tao si dipaneranno una serie di conseguenze, investigate nei due episodi centrali (ambientati rispettivamente nel 2014 e nel 2025): la triste sorte di Liangzi e le vicende del figlio di Tao e Jinsheng, Dollar, che andrà a vivere con il padre a Melbourne.
Non distante, per affinità tematiche, dai precedenti film di Jia, Al di là delle montagne possiede tuttavia una certa tonalità metafisica, che ha l’ambizione del film-mondo. Il tema del prezzo della civilizzazione (trionfo del mercato, perdita delle radici) è infatti integrato da una più generale riflessione sullo scorrere del tempo, che dà al film una patina misteriosa. I lunghi piano-sequenza, la scelta ponderata delle inquadrature e i rari movimenti di macchina fanno infatti irrompere in scena una spiritualità che pervade gli spazi prima che i personaggi: natura, strade, palazzi e cantieri paiono così emanare un’aura, un silenzio enigmatico.
Il film si presenta insomma come una ricognizione sui segni che durano nel tempo (dalla maglia multicolore di Tao ai ravioli fatti in casa) e che ciclicamente ritornano, accompagnando le vicende dei protagonisti. E’ infatti il segno a garantire un legame con un’origine capace di resistere all’oblio: se il giovane Dollar sembra ormai confuso e sradicato, basta una canzone a riportarlo verso un passato quasi dimenticato. Persino nel più buio pessimismo rispetto all’attuale situazione della Cina (e al mondo contemporaneo), Jia illumina così quel filo spirituale che pare superare il succedersi del tempo, riannodandolo a un passato che non smette di insistere sul presente e sul futuro.
Dal punto di vista del linguaggio, il film esibisce da un lato la lezione del neorealismo e soprattutto della Nouvelle Vague nelle ardite soluzione stilistiche, e dall’altra la spiritualità e il rigore stilistico di certo cinema orientale (sull’asse Ozu-Zhang Yimou). Come in Wong Kar-Wai, oriente e occidente, meditazione e spregiudicatezza pop trovano un’originale convivenza; come in Her di Spike Jonze, invece, il design del futuro ha tutto il fascino della doppiezza.
Al di là delle montagne possiede l’ambizione di mostrare quel punto invisibile che divide e collega passato, presente e futuro, e insieme di puntare uno sguardo, lucidamente politico, sulle contraddizioni della contemporaneità. Qui, lo stridio tra l’ipotesi di un salvifico ritorno e l’ipnotica ironia del finale – nella quale Go West dei Pet Shop Boys si ritorce contro se stessa ‒ ha le sembianze di un grido.
di Giulio Piatti