Mezz’ora più lunga della versione che nel 1979 uscì nelle sale, vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes e scosse la New Hollywood, e accorciata di una ventina di minuti rispetto all’ipertrofico Redux del 2001, Apocalipse Now – The Final Cut è << l’edizione definitiva e perfetta >> – parole dello stesso Francis Ford Coppola – di uno dei più luminosi e stranianti capolavori della storia del cinema. È la chiusura del cerchio dei continui dubbi, il punto di arrivo di un lavoro di limatura e di revisione iniziato dal mai davvero soddisfatto autore quaranta anni fa e che trovava le sue radici già nella lunga e tormentata post-produzione. A suon di metafora, possiamo paragonare il film ad un materiale che può essere continuamente plasmato senza che il suo valore, qualunque versione uno preferisce, diminuisca e il suo fascino si attenui. Del resto, Apocalypse Now fa parte di quel non nutritissimo gruppo di “film-universo” in grado di creare un mondo proprio, che in qualche modo va oltre la sua epoca e ciò che racconta, superando la contingenza della realtà a cui fa riferimento.
Liberamente tratto da Cuore di tenebra di Joseph Conrad, Apocalipse Now non è semplicemente un film sulla guerra in Vietnam. Non ha le sembianze del film di denuncia e non segue le strade della cronaca e della testimonianza; ha, anche nei momenti più realistici, le fattezze dell’astrazione e sembra un racconto di fantasmi.
Prendiamo come esempio l’incipit. Il volto del protagonista interpretato da Martin Sheen è sovrapposto alle immagini di ricordi, allucinazioni e suggestioni; non è chiarissimo se stia ricordando, se stia immaginando o addirittura sognando ad occhi aperti. Tra statue di idoli che appaiono velocemente ed elicotteri che diventano ventilatori, col sottofondo del celebre e straniante crescendo musicale di The end dei Doors e con una fotografia allucinata già segnale della sperimentazione visiva e “fotografica” che caratterizzerà buona parte della carriera successiva di Coppola, la realtà di partenza assume immediatamente i connotati di un altrove e vengono subito aperte le porte dei terreni in cui l’autore gioca: quelli della perdita di sé, dell’allucinazione, del nichilismo più cupo e della follia. Seguendo queste quattro coordinate, Apocalypse now è un viaggio all’inferno, reso anche grazie alla manipolazione di rossi ultrasaturi, luci e ombre della fotografia di Vittorio Storaro e, ovviamente, alla magniloquenza visionaria e al gigantismo stilistico del regista. Veniamo accompagnati in gironi tragici, in altri più grotteschi (la parentesi del colonnello Kilgore con la sua voglia di fare surf) e ancora in altri più sommessi e rarefatti (la sequenza della piantagione francese, la classica “quiete prima e dopo la tempesta”). Fino all’apparizione del colonnello Kurtz, un personaggio al di sopra di tutto, a partire dai concetti del bene e del male fino a quello di umanità (è da notare come sia sempre filtrato e “nascosto” da giochi di luci e ombre, proprio come l’apparizione di una realtà diversa); un personaggio che Marlon Brando contribuisce a rendere magnetico e gigantesco, esattamente come il film di cui è simbolo.
Edoardo Peretti