La storia prende le mosse da quella Sicilia da cui Pasquale Scimeca ha sempre tratto spunto per le sue opere, per poi seguire un viaggio che partendo dal Sud Italia si spingerà fino ad Assisi. Nei suoi due ultimi film Rosso Malpelo e Malavoglia il regista traeva lo spunto per la narrazione dal verismo verghiano, mentre qui la fonte d’ispirazione è la vera storia di Biagio Conte, ragazzo appartenente a una famiglia benestante che spinto dalla volontà di ritrovare il contatto con la sua anima e con Dio lascerà casa per intraprendere un pellegrinaggio scandito prima dall’immersione in una natura avvolgente e poi dalla rinuncia ai suoi averi per senso di solidarietà verso il prossimo. Il percorso di questo missionario laico verso il suo ricongiungimento a Dio, e che passa attraverso la natura (dormire tra la neve, il rapporto simbiotico con il cane randagio ribattezzato Libero, l’abbeverarsi all’acqua di sorgente), trova la sua espressione in quei primi piani che fondono l’io narrante con l’occhio dello spettatore. Un Into the Wild assai più minimalista e che sposta l’esegesi del naturalismo a quella di uno spiritualismo meno coinvolgente.
A fronte di una prima parte dove la ricerca del contatto con la natura trova espressione nelle belle sequenze iniziali, Biagio perde forza nella parte del percorso più spirituale che, nel suo eccessivo didascalismo, ne inficia la fruibilità. Il degrado e la sofferenza che Biagio ritroverà a Palermo gli faranno capire che la sua missione è proprio nel luogo da cui era scappato. Nasce così la sua Missione di Speranza e Carità grazie a cui aiuta le persone più bisognose. La narrazione della “conversione” di Biagio, da eremita a missionario, viene inserita nella cornice delle ricerche di un anziano regista che intervista l’ormai cinquantenne frate per conoscere i dettagli dei tormenti che l’hanno spinto a una scelta di vita radicale e irreversibile. È un film che il regista ha lottato molto per realizzare, come provvede ad informarci in un prologo tanto sentito, in cui le intenzioni spirituali dell’opera appaiono fin da subito manifeste.
Scimeca inizia bene, con un ascetismo colmo di dubbi e domande irrisolte proprie di un cinema che qualcuno ha ricondotto a quello di un maestro come Ermanno Olmi. Poi però l’architettura del film crolla, la performance di Mazzarella si fa enfatica e l’utilizzo di riprese semi-documentariste che s’intervallano a quelle ufficiali creano un effetto di straniamento che vorrebbe essere fortemente espressivo e appare invece privo di motivazione. Il film di Scimeca ha il merito di esporre una materia alta, ma il prodotto questa volta è un risultato più vicino al pasticciato che alla composizione. Un’interessante storia di formazione spirituale in un periodo storico come questo – contrapposto a una società alla deriva e devota al dio denaro – ma a cui manca il potere fascinatorio di immagini da contemplare.
Alexine Dayné