Rompere con la compattezza narrativa e l’aristotelica unità di tempo, luogo e azione non significa allontanarsi dal cinema: è quanto accade, a partire dagli anni ’60, in Francia, con la Nouvelle vague. Personaggi che girovagano, trame che si sfaldano, impossibilità di agire. Se gran parte del cinema e delle serialità contemporanee sembrano puntare tutto sulla precisione della scrittura e su un’inappuntabile costruzione drammatica, Richard Linklater riabilita per il grande pubblico un modo di fare cinema che prende di petto il problema della vita. Sì, perché Boyhood, fresco vincitore di tre Golden Globes, è certo un film imperfetto e con alcuni momenti di stanca, ma si pone anche come un originale tentativo di cogliere la vita, nella sua quotidianità, nell’apparente insignificanza delle scelte di tutti i giorni e nel suo incessante divenire.
Si tratta prima di tutto di un esperimento: richiamando, nel corso di dodici anni, la stessa troupe, Linklater ha voluto filmare una storia in grado di invecchiare insieme agli attori. E’ questa un’idea coltivata dal regista sin dai tempi della trilogia composta da Before Sunrise, Before Sunset e Before Midnight, che raccontava una storia d’amore in tre momenti, a distanza di nove anni l’uno dall’altro.
Il film racconta il coming of age di Mason, ragazzino di cinque anni, figlio di genitori divorziati. Ci vengono mostrate le sue ansie, le sue passioni, i suoi amori e, più in generale, la sua crescita attraverso gli anni, sino all’ingresso al college. Ad accompagnare Mason, una colonna sonora variegata e cronologicamente orientata, che tiene assieme, tra gli altri, Coldplay, Blink-182, Arcade Fire e Gotye.
Preso dalle piccole decisioni di ogni giorno, Mason non si rende conto di essere in continuo divenire, preso in un movimento che lo porterà dalla gioventù all’età adulta. Nulla della sua vita è realmente insignificante: dalla nottata con la fidanzata in una tavola calda all’origliare i litigi tra i propri genitori, dai weekend con il padre alle cene con i parenti. Ogni scena rimette in gioco tutto l’insieme del carattere di Mason, che, sequenza dopo sequenza, diventa sempre più complesso: lo spettatore riuscirà così a comprendere i suoi silenzi, le sue idee sul mondo e le sue scelte.
In Boyhood i personaggi parlano, litigano, se ne vanno e ritornano, a distanza di anni, mutati nell’aspetto e nei gesti, come se le scelte fatte fossero scolpite nel loro fisico. “Qual è il senso di tutto questo?”, chiede Mason al padre: il senso, sembra dirci Linklater, se c’è, sta nel mezzo, in quelle ellissi che Boyhood si concede tra differenti archi temporali. La vita non è mai riducibile ad un singolo evento, per quanto traumatico, né si costituisce come la somma di tutti i momenti trascorsi, ma è quella consapevolezza che brilla, soltanto per un istante, nello scambio di sguardi tra due personaggi, in un improvviso silenzio dopo una lunga conversazione; in quel momento tutte le differenze tra cinema e realtà, tra vita e schermo, come per magia, scompaiono.
Giulio Piatti