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Cry Macho – Ritorno a casa

Mike Milo (Clint Eastwood) è un ex campione di rodeo convertito ad addestratore di cavalli che, come tanti personaggi ideati e interpretati da Eastwood, all’inizio del film è investito di un delicato incarico: portare in patria (Texas) il figlio adolescente del suo capo Howard Polk, verso cui Mike è debitore. Così, il protagonista, cappello da cow-boy, stivali texani e macchinone polveroso come nei migliori road movie americani, parte alla volta del Messico in cerca di Rafael: testardo ragazzino, si dedica alle battaglie di galli e alla vita di strada per fuggire, come lui stesso racconta, dalla ben più violenta realtà domestica, condivisa con la madre e gli uomini di cui lei si circonda. Finalmente persuaso a partire, Rafael vuole a tutti i costi portare con sé il suo gallo Macho, che in effetti li salverà in più di un’occasione, quando gli scagnozzi della madre tenteranno di bloccare l’improbabile duo nel loro viaggio di ritorno a casa.

L’avvicinamento casuale del protagonista (uomo, bianco, adulto, americano e conservatore) all’estraneo (giovane, di origini non americane, non bianco), è una costante nei film del regista, il quale si fa portatore di una missione salvifica-educativa nei confronti dell’altro. Il viaggio, infatti, si configura presto come un percorso di insegnamenti/prescrizioni che Mike/Eastwood elargisce al ragazzo (da come domare un cavallo al proibirgli di bere tequila), tentando così di portarlo su quella che lui ritiene essere la giusta strada ovvero, nelle battute iniziali del padre Howard, essere un vero cow-boy, dirigere un ranch, avere un cavallo, insomma conformarsi a uno dei modelli americani stereotipati dell’uomo di successo. Stereotipate sono un po’ tutte le figure che gravitano intorno a Mike, dai poliziotti messicani incompetenti e corrotti, alle donne incasellate nei soliti cliché di prostitute (Leta, la madre di Rafael, circondata da uomini e vino) o sante (Marta, la locandiera casta e generosa).

Mike stesso è un personaggio afferente a una mascolinità del tutto stereotipata: un uomo novantenne (visibilmente lento e in difficoltà in alcuni movimenti) che cavalca cavalli selvaggi, stende con un solo pugno delinquenti di professione, accende istantaneamente il desiderio di affascinanti donne (Leta) e fa innamorare a prima vista accoglienti vedove (Marta). La messa in scena di questa mascolinità fatta necessariamente di virilità e forza fisica, portate allo stremo anche in età avanzata, porta a uno scollamento del personaggio da una qualsivoglia verosimiglianza con la realtà, azzerando così anche qualsiasi empatia tra spettatori/spettatrici e protagonista.

Eastwood forse rimpiange la gioventù (o per meglio dire la rappresentazione standardizzata del giovane uomo) e se la appiccica così addosso in questo film, mostrandoci la sua visione del mondo che sembra però un po’ fuori dal mondo, mancando l’occasione di poter realizzare un’opera più introspettiva e una riflessione più articolata su vecchiaia, mascolinità e malinconia.

Carolina Zimara

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