Dio (Benoît Poelvoorde) è un incrocio tra Bukowski e un nerd: rimane tutto il giorno rintanato nella sua buia stanza (dai soffitti altissimi, tappezzati di schedari di quei “pupazzetti creati per rilassarsi”, cioè l’umanità), a picchiettare con forza sulla tastiera di un computer anni ‘80, su una scrivania sommersa di bottiglie di alcolici e posacenere ricolmi di mozziconi. Rigorosamente abbigliato di calzini bianchi su ciabatte da piscina blu e vestaglia a quadri svolazzante, Dio trascorre le giornate svolgendo un compito importantissimo e difficilissimo: inventare le leggi della “sfiga universale”, quali ad esempio “la fila di fianco avanza sempre più veloce della tua” o “una fetta di pane e marmellata cade sempre dalla parte della marmellata”. Quando non è chiuso nella sua stanza, Dio, annoiato e indisponente, trascorre malvolentieri il tempo con la sua famiglia ‒ che non è quella che tutti conosciamo ‒ composta solo da quel figlio ribelle di J.C., da tempo ormai lontano da casa, ma anche da una moglie (un po’ svampita, sottomessa all’autorità del marito, che ama ricamare fiorellini) e da una figlia, Ea, ragazzina brillante che sopporta a fatica l’atteggiamento dispotico del padre e che, sulle orme del fratello, progetta di fuggire dallo squallido appartamento, dove è rinchiusa da sempre, servendosi, come nelle fiabe, di un passaggio segreto.
Al di là dell’ingombrante presenza del personaggio Dio, non vi è dubbio che la protagonista del film sia però Ea (che è anche la voce narrante), la quale ci racconta innanzitutto una storia di emancipazione e di riscatto nei confronti di un padre (che sia Dio poco importa) violento e autoritario e forse anche inetto e non all’altezza del suo ruolo («E’ disgustoso quello che fa alle persone. Voglio fare meglio di mio padre. E voglio che soffra»). Nel suo percorso fuori dal nido paterno, alla ricerca di nuovi apostoli per la scrittura di un nuovo Nuovo Testamento, Ea incontrerà donne che s’innamoreranno di scimpanzé e bambini che diventeranno bambine, sovvertendo così tutte le comuni forme d’amore e di genere, in una, evidentemente provocatoria, contrapposizione, anche generazionale, tra amore tradizionale (vecchia concezione di famiglia: marito, moglie e figli) e altre, nuove, forme d’amore.
Attraverso l’efficace arma dell’ironia, con la proposta di un Dio antropomorfo e desacralizzato, è difficile non intravedere nell’opera una riflessione sul concetto di natura. Non solo lungo tutto il film vengono in qualche maniera proposte e poi accettate nuove forme d’amore ritenute perlopiù innaturali, ma è soprattutto nell’originale colpo di scena finale che il regista, rispondendo no alla domanda “Se il Creatore fosse una donna, il cielo sarebbe comunque azzurro?” ci pone davanti a interrogativi spinosi: cos’è il naturale? Dov’è? Quanto conta veramente per noi? Non è forse una specie di culto idolatrico al quale inutilmente ci sacrifichiamo?
di Carolina Zimara