Una desolata, interminabile distesa di sabbia opaca che si intreccia con le increspature blu e bianche della schiuma del mare; un manipolo di soldati inglesi silenziosi, dagli abiti ed elmetti scuri, che creano geometriche figure disponendosi in fila indiana sulla battigia, in attesa del loro tragico o favorevole destino, per una settimana. Navi inglesi colorate, disposte in linee curve sulle onde dell’oceano; civili compatrioti al timone, che si affannano per portare in salvo i combattenti naufraghi, per un giorno. Arei inglesi tagliati in inquadrature oblique, che solcano il cielo invaso di luce; piloti con giubbotti marroni in claustrofobiche cabine, che dall’alto difendono le navi in basso, per un’ora. Questo è l’ultimo Nolan, fatto di elementi visivi e sonori essenziali, incasellati in tre strutture spaziali e temporali ben distinte.
I fatti narrati sono noti: a maggio del 1940, le truppe inglesi stanziate a Dunkerque (Francia), accerchiate su tre fronti (terra, mare e cielo) dall’esercito tedesco, si trovano costrette a pianificare un’inimmaginabile operazione di ripiegamento che coinvolge, oltre ai mezzi militari, anche le imbarcazioni civili. L’esito della cosiddetta Operazione Dynamo sarà inaspettatamente positivo, portando di fatto ad una “vittoria dentro la disfatta” e scrivendo così, su quelle spiagge, una pagina eroica della storia britannica.
Ma Dunkirk non è un film di guerra, o meglio non è solo un’opera di guerra o un classico del genere. Il mito nazionale della battaglia di Dunkerque sembra essere, in realtà, l’ennesimo pretesto per appagare l’ossessione del regista: la percezione del tempo. Dopo Interstellar, dove il tempo veniva letteralmente (vivi)sezionato, piegato e infine mostrato a favore di pubblico, qui la manipolazione dell’istante è meno evidente, a tratti solo accennata e forse più presupposto narrativo che operazione concreta, ma altrettanto centrale. Le tre linee cronologiche (una settimana, un giorno, un’ora) annunciate dai titoli che introducono i tre territori di guerra (spiaggia, mare, aria), seppur presentate con durate differenti, vengono a convergere, di fatto, nell’unico presente possibile, quello del tempo cinematografico, creando un corto circuito temporale che genera domande, riflessioni e forse spaesamenti. Se in Interstellar il tempo rappresentato era visivo, qui è invece perlopiù sonoro. La partitura musicale che accompagna l’intero film è un tentativo, a livello acustico, di esibire l’inafferrabile scorrere del tempo che si accompagna spesso ad uno stato d’animo: quello dell’attesa e della relativa angoscia che essa comporta.
Candidato a tre Golden Globes, il film, lavorando su tempi e spazi, a discapito dell’emergenza delle emozioni ha il grande merito di mostrare la guerra per quella che è: uomini che non sono più uomini che, ciechi e sordi, si muovono nello spazio, sopravvivendo.
di Carolina Zimara