Serghei Michailovic Eisenstein è stato uno dei registi più importanti del novecento e, al contempo, una personalità straripante; basta sfogliare velocemente uno dei suoi numerosi libri per cogliere la poliedricità di interessi – filosofia, arte, architettura, matematica, disegno – e immaginarsi il suo carattere superbo e pieno di sé, capace di tenere insieme afflati mistici e sincera partecipazione al regime stalinista.
In Eisenstein in messico Peter Greenaway si concentra sull’esperienza messicana del regista, quando questi, sull’onda del successo planetario della Corazzata Potëmkin – quarantacinque anni prima della geniale citazione ne Il secondo tragico Fantozzi – si reca dapprima in Europa, poi a Hollywood e, infine in Messico, per girare un film finanziato dallo scrittore americano Upton Sinclair. L’intenso soggiorno messicano si concluderà con oltre 64.000 metri di pellicola che Eisenstein, una volta rientrato in Russia, non avrà più modo di montare (Dal girato eisensteiniano saranno realizzati ben quattro film, di cui i più interessanti sono Que Viva Mexico!, montato dal collaboratore Aleksandrov e Lampi sul messico, dai produttori americani).
Greenaway si concentra ovviamente sulle vicende personali del regista, e in particolare sulla relazione sessuale e sentimentale con la sua guida messicana: sembra voler (di)mostrare come l’esperienza messicana sia stata una sorta di rito di iniziazione per un uomo timido mascherato da arrogante o, il che è lo stesso, per un codardo mascherato da coraggioso. Eisenstein si libera dalle ingenuità del rigorismo russo, per aprirsi al piacere, alla vita e al denaro. Nell’insistere su queste componenti, Greenaway accentua il suo ormai classico stile manierista – utilizzo smodato di grandangoli, split screen, movimenti di macchina circolari, citazioni eisensteiniane, fotografie d’epoca – senza però appesantire il film, che risulta in fondo piacevole e a tratti persino divertente.
Eisenstein in Messico non è certamente un film autobiografico: l’ego di Greenaway è fin troppo ampio perché si limiti a raccontare una mera vicenda personale. Il film possiede in ogni caso un merito inequivocabile, nel cogliere l’aspetto fondamentale del cinema eisensteiniano o, forse, del cinema in generale: Eisenstein è un genio della costruzione drammatica, che ha poco interesse nei confronti del mondo esterno. Il cinema è per lui prima di tutto creazione: la rivoluzione filmata in Ottobre è più bella e intensa di quella realmente accaduta. Il suo interesse sarà insomma sempre quello di scuotere gli spettatori piuttosto che di raccontare una verità. Contro ogni mito della realtà “colta sul fatto” Greenaway e Eisenstein, prendendo ovviamente due strade opposte, ci dicono in fondo la stessa cosa, ovvero che il cinema è innanzitutto finzione, proprio come in quei coloratissimi riti messicani della Santa Morte che sembrano suggellare, secondo Greenaway, più di mille parole, l’esperienza messicana del regista sovietico.
di Giulio Piatti