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Ema

Pablo Larraín è senza dubbio uno dei registi più importanti degli ultimi quindici anni, capace di realizzare alcuni film importanti (No – I giorni dell’arcobaleno, Tony Manero) e un paio di capolavori (Neruda, Il Club), ma soprattutto in grado di costruire un percorso artistico insieme rigoroso e provocatorio, da vero e proprio enfant terrible della settima arte. Ema, ottava creazione del regista cileno, sembra distaccarsi dal gruppo compatto delle opere precedenti, costituendosi come una sorta di unicum decisamente più sperimentale.

Ema, giovane ballerina di danza contemporanea, e Gastón (García Bernal), il suo coreografo e marito, si trovano ad affrontare una profonda crisi di coppia, causata dall’abbandono del figlio adottivo Polo (ormai adottato da una nuova famiglia), in seguito a una tragedia famigliare. Decisa a riavvicinarsi al piccolo, Ema entrerà progressivamente nella vita dei suoi due nuovi genitori, affrontando al contempo – anche con l’aiuto di un affiatato gruppo di amiche – la dolorosa crisi (sentimentale, ma anche professionale) con Gastón. Ema è un film spiazzante, per svariate ragioni. Da un punto di vista squisitamente formale, assistiamo a un trattamento dello spazio-tempo assolutamente peculiare: Larraín unisce a una narrazione non lineare e spezzata un’estetica coloratissima ed espressamente ipermoderna (accompagnata dalla strepitosa colonna sonora elettronica firmata da Nicolas Jaar), rendendo Valparaiso una vera e propria metropoli al neon nella quale Ema sembra muoversi a suo agio.

È proprio intorno alla protagonista che Larraín lancia la sua scommessa, cioè quella di realizzare – non senza ironia – un intero film su un personaggio con cui lo spettatore non potrà trovare complicità: Ema è infatti dipinta nel peggiore dei modi e risulta respingente nei suoi atteggiamenti, folle e criminale nei suoi piani, volutamente crudele, egoista e cinica con il prossimo.

Allo stesso tempo, le gesta della protagonista diventano anche il grimaldello attraverso il quale squadernare una grande quantità di temi: da quello – più ovvio – dell’adozione e della famiglia sino ai lati più oscuri della sessualità, passando per la questione femminile e arrivando persino allo statuto della musica e della danza in quanto arti (innegabilmente straordinaria è la tirade di Gastón sul reggaeton). Sta forse in questo fin troppo ricco archivio di temi il difetto più evidente del film, il quale, pur esibendo più di un momento felice, non nasconde una certa confusione di toni, idee e direzioni: si passa senza soluzione di continuità dal dramma intimistico al giallo al femminile, dalla sperimentazione al film di denuncia sociale. Nemmeno la parte finale, che si apre su un registro più largo – con il ritorno quasi felliniano di tutti i personaggi sulla scena – riesce del tutto nell’intento di risolvere una così importante eterogeneità. Ema resta in ogni caso un film affascinante, provocatorio, a suo modo divertente, che leviga la sua bulimia espressiva con un grande controllo registico. Non privo di riferimenti (su tutti Memento di Nolan e Teorema di Pasolini), ci restituisce la gioia di vedere l’exercice de style di un grande regista contemporaneo.

Giulio Piatti

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