Un inno e omaggio esplicito all’asino più famoso della storia del cinema, il Balthazar di Au hasard Balthasar di Robert Bresson. Siamo nella testa di un asino, Eo (titolo onomatopeico), che cammina, respira, scappa, lacrima. Un animale intelligente, caparbio, sensibile e passivo. Vediamo, con i suoi occhi teneri e senza fondo, il mondo. Un testimone muto delle miserie umane.
L’asino, liberato da un circo polacco, inizia un percorso, attraverso l’Europa fino a giungere in Italia, incontrando e conoscendo le gioie e i dolori dell’umanità più varia. L’animale sopporta la ruota della fortuna trasformando casualmente la sua fortuna in un disastro e la sua disperazione in una felicità inaspettata, ma nemmeno per un momento perde l’innocenza. Eo sa ricordare, ha una memoria, dei desideri, delle emozioni, quindi un pensiero.
Un film in continuo dialogo tra soggettiva e oggettiva, con inquadrature magistrali e pittoriche come quelle di Sokurov, nutrite del contemporaneo, della videoarte, di grande potenza immaginifica, che evidenziano l’occhio dell’asino e i quadri del mondo intorno.
Una versione poetica, tenera, dolce e amara e profondamente umanista di un “film di viaggio”, un ritratto delle relazioni sociali e dei cambiamenti culturali in atto nel mondo moderno, che ci aiuta a estendere i confini della nostra empatia.
Un inestimabile gioiello filmico dei nostri tempi proprio per la sua materia, pura, riconosciuta al Festival di Cannes come Premio della giuria, ex-aequo con Le otto montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch.
Un’opera sull’innocenza da preservare in un mondo, definito da Skolimowski, “cinico e spietato, ostile, dove l’innocenza può passare per ingenuità o come segno di debolezza”. Ma soprattutto sul senso di libertà, sull’amore e sull’amore per la vita, restituitoci tutto dagli occhi che parlano di un animale amabile il cui viaggio nel mondo si arricchisce di istantanee come frammenti di vita vera, fatti di dolcezza e crudeltà.
Il regista polacco, oggi ottantaquattrenne, da sempre visionario, sa creare come quasi nessun altro autore, un senso di movimento per poi abbandonarsi a una passività al limite della pigrizia. Una passività pressoché animale.
Quasi assenza di dialoghi, stacchi bruschi di montaggio, obiettivi che forzano oltre l’impossibile la volumetria degli oggetti profilmici, inquadrature dall’alto verso il basso, a picco sulle foreste, (riprese con l’elicottero), viraggi selvaggi. Un film unico, che nell’insinuarsi in quella terra di confine narrativa tra tradizione e innovazione, trova la propria direzione nel sentiero dell’immortalità artistica.
Alexine Dayné