L’uomo è un essere biologico o culturale? Ha più importanza il dato genetico o quello storico? Queste domande fanno da sfondo ad uno dei più importanti dibattiti odierni, capace di impegnare, da diversi punti di vista, discipline quali l’antropologia, la medicina, la filosofia e le scienze della vita. Hirokazu Koreeda, cineasta nipponico – vecchia conoscenza del Torino Film Festival, che premiò il suo Wandâfuru raifu, nel 1998 – ripropone il tema in Father and Son, affrontandolo dal punto di vista dell’educazione.
Cosa succederebbe se un padre e una madre scoprissero, dopo sei anni, di aver cresciuto il figlio di altri, a causa di uno scambio al momento della nascita? E’ quanto accade ai benestanti Nomomiya: quelle che sembravano soltanto differenze di carattere, diventano allora, almeno agli occhi del padre, elementi sufficienti per negare ogni possibilità di rapporto con il proprio figlio. E’ la riproposizione del mito del sangue: la genetica sopravanza l’educazione, buon sangue non mente. Un piccolo sospetto esplode, fino a diventare una vera e propria ossessione, per Ryota Nomomyia, il quale si convince che suo figlio finirà per assomigliare sempre di più al padre naturale. All’estremo opposto dei Nomomiya troviamo la famiglia dei Saiki, allegra e disagiata, che accoglie con altrettanto stupore la notizia dello scambio. Dal tema del sangue si passa così a quello sociale: se i Nomonyia possono e vogliono far valere la propria superiorità, ottenendo di poter scambiare il loro figlio, i Saiki, in difficoltà, vorrebbero ricavare il massimo, in termini economici, dal presunto errore commesso dall’ospedale: ciò di cui nessuno tiene conto sono i figli che, da lontano, subiscono le decisioni prese da genitori piccoli, preoccupati soltanto dai loro egoismi quotidiani. La cinepresa di Koreeda, impietosa, immortala e condanna i comportamenti degli adulti, offrendo indirettamente comprensione al mondo dei bambini.
In linea con una poetica dal sapore squisitamente orientale, Father and Son si configura come un inno alla leggerezza, intesa in un senso strettamente positivo: all’opposto delle pesanti, seriose e ossessive riflessioni di Ryota, la leggerezza è invece una forza di superficie, lieve come le note di pianoforte che accompagnano l’intero film. Solo una forza tale è in grado di farci abbandonare le pretese di una verità assoluta, permettendoci di penetrare nelle pieghe della vita, così come nel cuore di un bambino. In questo Yukari, il padre allegro e spiantato, ha molto da insegnare al competitivo Ryota. Koreeda, in conclusione, non ci fornisce risposte nette, ma ci propone, in cambio, la possibilità di riflettere sull’educazione: fare il genitore è un mestiere artigianale e sempre in itinere che, per avere un risultato, necessita, come il popolamento di un bosco artificiale, di tempo e saggezza, di affetto e pazienza. Solo così le ragioni del sangue possono lasciare spazio alla crescita e alla capacità di “trarre fuori” qualcosa, di ex-ducere.
Giulio Piatti