La struttura del racconto di À bout de souffle è alquanto semplice, quasi solo un pretesto per permettere l’incontrarsi di un uomo e di una donna. Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo), è un ladruncolo che, dopo aver rubato un’auto a Marsiglia e aver ucciso un poliziotto, corre a Parigi per ritrovare Patricia Franchini, (Jean Seberg), trascorrere del tempo con lei e tentare di convincerla a intraprendere una relazione stabile, con il proposito di fuggire poi insieme, romantici latitanti in giro per il mondo. A discapito dell’esile trama del bandito in fuga, nel film prevale senz’ombra di dubbio la storia d’amore tra i due protagonisti, perché À bout de souffle si può definire a tutti gli effetti una lunga conversazione d’amore fumosa tra un uomo e una donna. Il film, come molti altri della Nouvelle Vague, propone un amore per così dire moderno per l’epoca, più realistico, a tratti presunto, incerto, totale, scevro da qualsivoglia orpello classicamente considerato romantico: lui si dichiara di sfuggita con la frase «È idiota, ma ti amo», lei intrattiene altre relazioni e appare perlopiù confusa «Michel ho paura, perché volevo che mi amassi e ora non lo so più»; infine, entrambi si punzecchiano scambiandosi più insulti che adulazioni «Sei vile, è un peccato», «Sei così vigliacca che scommetto che riderai». Patricia è il personaggio rappresentato con più incisività nel film e il più moderno tra i due (e non solo nella gestione delle relazioni sentimentali): americana da qualche tempo a Parigi, dovrebbe iscriversi a La Sorbonne ma rimanda di continuo e nel frattempo lavora come giornalista, è indipendente, frequenta molta gente e non si conforma a nessun ruolo predefinito relativo al femminile, disinteressandosi della maternità o del matrimonio.
Nella sequenza centrale del film, della durata di una ventina di minuti, la coppia si trova all’Hotel Suède, nella stanza dove alloggia Patricia: i due passano il tempo a letto e in bagno a chiacchierare e fumare, in quella che potremmo definire null’altro che una sospensione del tempo, che Deleuze chiamerebbe tempo morto della banalità quotidiana. À bout de souffle è un’opera che mette in scena i gesti quotidiani, scaturiti semplicemente da un esserci, più che un rappresentare: lavarsi i piedi, fumare, fare le boccacce allo specchio, mettersi le scarpe. In questo senso, la Nouvelle Vague introduce una nuova modalità di recitazione: l’interpretazione classica lascia il posto alla presenza, a una persona che compie dei gesti. Gli attori e le attrici non sono più chiamati a interpretare un ruolo codificato, ma sono anzi invitati a smettere di recitare, a spogliarsi del corredo di gesti e posizioni pensati in funzione della macchina da presa, per lasciar spazio a nuovi gesti quotidiani più naturali.
Considerato una pietra miliare della storia del cinema, À bout de souffle è disseminato di scelte innovative anche punto di vista estetico: lo sguardo in macchina, l’uso libero del montaggio, le inquadrature inedite (la nuca di Patricia) sono elementi che, uniti alla nuova modalità di recitazione, contribuiscono a creare atmosfere che rimangono scalfite nel nostro immaginario per sempre.
Carolina Zimara