Michael, padre di una famiglia benestante a Tel Aviv, riceve la notizia della morte del figlio primogenito, partito al fronte come soldato nell’esercito israeliano. Nonostante l’insistenza del padre, le autorità militari israeliane non rivelano nulla delle circostanze della morte di Jonathan né sanno dire se dentro la bara che sta viaggiando verso casa ci sia davvero il suo corpo da seppellire, esacerbando ancora di più il dolore e il sentimento di impotenza e fallimento di un padre distrutto. Nel frattempo, scopriamo in cosa consisteva la missione di Jonathan, soldato di guardia ad un avamposto sperduto nel mezzo del deserto dove lui e i suoi quattro compagni cercano di superare la noia ascoltando musica, disegnando fumetti e aspettando il giorno in cui il loro improvvisato avamposto sprofonderà definitivamente nel pantano su cui è stato posato.
Dopo la sua opera di debutto, Lebanon, vincitrice del Leone d’oro alla 66° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Maoz torna a raccontare la guerra in Israele, questa volta incentrando la narrazione sulla famiglia di un soldato “caduto nell’adempimento del proprio dovere”. Il film, diviso in tre capitoli, riesce a trasmettere in maniera forte e chiara il dissenso del regista per questa guerra insensata e riesce a farlo senza mostrare mai alcuna scena di vero conflitto. Ciò che infatti vediamo della guerra è solo il triste e sperduto avamposto controllato da Jonathan e compagni che raramente viene effettivamente attraversato da esseri umani. I pochi che passano di lì sono semplici civili, trattati come potenziali nemici mortali e vessati dai soldati ormai esasperati dalla noia e dall’assoluta inutilità della loro presenza in loco. Le loro giornate passano ognuna uguale all’altra tra pioggia e sole, fango e sabbia. Molte sono le inquadrature dall’alto usate magistralmente come metafora dell’impotenza dei soldati, costretti quasi in prigionia a ripetere continuamente le stesse azioni e gli stessi discorsi mentre il containerche li accoglie la notte si inclina sempre più, sprofondando nel pantano causato dalle frequenti piogge, situazione che sembra non preoccupare gli ormai apatici soldati. Le stesse inquadrature vengono usate per seguire Michael, impotente di fronte al proprio dolore e a quello della propria famiglia, che ci spiega che la vita è un po’ come il foxtrot, un ballo che si basa sulla ripetizione degli stessi passi e che ti riporta inevitabilmente sempre al punto di partenza.
Foxtrot ha confermato l’incredibile talento di un regista che cerca di raccontare l’attualità del proprio paese attraverso uno sguardo spietato e poetico al tempo stesso, raccontando il dramma privato di una famiglia che le rappresenta tutte senza tener conto dei confini geopolitici.
di Alessia Gasparella