Nell’esilarante e durissima serie P’Tit Quentin (2014) l’iconoclasta regista francese Bruno Dumont aveva messo in scena un apocalittico, tanto quanto più che plausibile, fallimento della società multietnica transalpina, affrontando, con sardonico ghigno sul labbro, tematiche quali il terrorismo e il razzismo, e come la paura del primo alimenti il secondo. Nel 2016 la farsa Ma loute caricaturizzava un’alta società mostruosa e ridicola; la borghesia urbana, in particolare quella dalle apparenze progressiste e dalla sostanza conservatrice, veniva messa alla berlina nel film capace di intercettare il significato più nobile della farsa. In France tocca alla stampa passare sotto le forche caudine del cinico, grottesco e sardonico autore – il quale intanto ha riletto a modo suo la figura di Giovanna D’Arco in Jeannette (2017) e in Jeanne (2019).
Protagonista del film è France de Meurs, interpretata da Lea Seydoux, la giornalista più importante, seguita, celebrata e idolatrata del paese. Tra “coraggiosi” reportage di guerra e conferenze stampa del presidente Macron, la giornalista alimenta il suo mito. Scopriamo però presto che tutto è costruito, finto e studiato; di vero ci sono solo il narcisismo e il cinismo della protagonista, nei prodotti del suo lavoro tanto quanto nella sua vita privata. A scoperchiare il vaso di Pandora della sua esistenza, un incidente d’auto che ha come vittima un rider immigrato.
Bruno Dumont non è un autore per tutti: il suo cinema grottesco e sarcastico fino all’eccesso può dare fastidio, così come può conquistare con facilità. Innegabili sono però, in ogni caso, l’acume e la lucidità, che la ferocia di fondo non pregiudica, con cui Dumont prende di mira i suoi obiettivi e con cui osserva la società. Il “quinto potere” della stampa, bersaglio certamente non inedito nella storia della settima arte, come hanno dimostrato nei decenni film quali L’asso nella manica (1951) di Billy Wilder o, appunto, Quinto potere (1975) di Sidney Lumet, viene qui ritratto come un mondo completamente finto e costruito, come le smorfie di falsa compassione e dolore che la protagonista mostra in certi suoi reportage. Questa falsità si allarga però a ogni aspetto che caratterizza, o anche solo sfiora, il lavoro e l’esistenza di France; certamente non appare sincera la politica, ma poco genuini appaiono anche i rapporti di lavoro e privati e gli atteggiamenti quotidiani, fino ai sentimenti e al senso dell’etica. Grancassa di questa falsità di fondo è il fatto, ben intercettato dal film, che la contemporaneità, per i social e non solo, è in qualche modo un flusso d’informazione continua, dove l’apparenza superficiale e la finzione costruita diventano sempre più dominanti e invasivi. Fino a cancellare tutto il resto.
Lo stesso stile, per così dire, sarcasticamente patinato e “finto” scelto da Dumont diventa quindi significativo nel sottolineare questo aspetto, oltre che sottolineatura visiva del sardonico e cattivo grottesco tipico del regista.
Edoardo Peretti