Ancora una volta di fronte ad un film di Wes Anderson sembra di assistere ad una lezione di cinema in piena regola: l’insegnante spiega con rara maestria l’arte del narrare e del fare film, l’utilizzo del linguaggio filmico e dei segni cinematografici.
La scena si apre in un cimitero della Repubblica immaginaria di Zubrowka, dove ad una giovane ragazza col berretto viene affidato il compito di innescare il meccanismo della narrazione attraverso il gesto dell’apertura di un libro. In questo istante viene varcata la porta del tempo del Grand Budapest Hotel e assistiamo ad un susseguirsi di piani temporali, incastrati l’uno nell’altro come delle bambole matrioska e connotati cinematograficamente dalla variazione del formato dello schermo. Passiamo in un lampo dagli anni ‘80 ai ‘60 fino ai ‘30, accompagnati da un leggero senso di vertigine come appena scesi da una giostra di cavalli al luna park. E il film, in effetti, è proprio questo: una pluralità di caleidoscopi di colori che girano vorticosamente su loro stessi e che avvolgono totalmente i personaggi, prede del loro vortice.
La storia di Monsieur Gustave, eccentrico e rigorosamente profumato concierge del Grand Budapest, amato in particolare dalle clienti anziane e danarose, è innanzitutto una narrazione di passaggio: passaggio nelle stanze sgargianti o color pastello del fantasmagorico hotel (in realtà un vecchio centro commerciale ristrutturato per il film) ma anche disinvolto passaggio da situazioni elegantemente comiche a scene quasi tragiche, grottesche e dall’atmosfera noir. E’ difficile e oltremodo improprio, effettivamente, collocare il film in un genere preciso, intriso com’è di elementi di commedia, noir, dramma, avventura, giallo e affresco storico.
Il miscuglio di colori, generi, situazioni e personaggi viene però efficacemente temperato e reso più comprensibile dalla scelta della struttura narrativa, che suddivide il film in cinque parti distinte, introdotte da diversi cartelli multicolori. Ma questi sono solo una parte della moltitudine di segni grafici disseminati nell’opera. Il regista sembra voler aggrapparsi a queste ancore testuali per dare una certa fissità ad un film dove il passaggio e la velocità fanno da padroni. Ecco che allora in corrispondenza di ogni elemento architettonico, troviamo la sua scritta diegetica di accompagnamento: funicular, press, Mendl’s, Grand Budapest.
Il cast è estremamente ricco e variegato. Oltre a Owen Wilson, Adrien Brody, Jason Schwartzman che seguono ormai il regista come una famiglia, non mancano le new entry come il giovane Tony Revolori (alla sua prima interpretazione) nei panni del garzoncello Zero, compagno fidato di Monsieur Gustave e che si scoprirà essere personaggio chiave dell’intera vicenda.
Vincitore di diversi premi fra cui il Gran Premio della Giuria al David di Donatello come Miglior Opera Straniera e l’Orso d’Argento a Berlino, il film è un’altra grandissima prova di quell’artigiano del cinema che è Wes Anderson, da gustare dall’inizio alla fine come un prelibato dolcetto.
Carolina Zimara