Hungry Hearts, di Saverio Costanzo, tratto dal romanzo Il bambino indaco, è incentrato sulla storia di una giovane coppia. Mina e Jude si conoscono per un’assurda casualità, si innamorano, si sposano e vivono un’appassionata relazione. Mina poco dopo rimane accidentalmente incinta e dà alla luce un figlio.
I due si amano, sembrano autosufficienti, autonomi dal mondo, protagonisti di un amore puro e immacolato. Ad un certo punto, però, qualcosa si spezza: una chiromante predice a Mina che il suo bambino sarà “speciale” e dovrà essere protetto dal mondo circostante.
Quella tendenza a chiudersi al mondo esterno si radicalizza allora, da parte di Mina nei confronti del figlio: dieta vegana, ortaggi coltivati in casa, limitazione delle uscite. Se, sulle prime, Jude asseconda i comportamenti di Mina, si rende però progressivamente conto dell’instabilità della moglie e, conseguentemente, dei pericoli per la salute del proprio figlio.
Il film possiede due anime, che si rimandano continuamente: da un lato c’è l’amore, la tenerezza e la perseveranza – Jude con Mina, Mina con il bambino, Jude con il bambino – sottolineati dalle musiche di Nicola Piovani, dall’altro, come contrappunto, il tema dell’ossessione e della claustrofobia, che assume dimensioni crescenti nel corso della vicenda. Costanzo mischia intelligentemente i generi, passando senza soluzione di continuità dalla commedia romantica al thriller, dal dramma all’horror. Notevole, in questo senso, il linguaggio registico che sottolinea, attraverso l’uso deformante dei grandangoli, la discesa agli inferi della storia, il suo degradarsi nell’abisso della follia.
E’ poi interessante il registro generale dell’ambiguità nel quale Costanzo immerge la propria opera: la lettura ragionevole, che affida la follia esclusivamente a Mina, è ogni volta levigata dal tarlo di un dubbio, nei confronti sia di Jude, incapace di scegliere, sia di sua madre, sempre più invadente. Riprendendo il Polanski di Rosemary’s baby, Costanzo mantiene vivi i dubbi lungo tutto l’arco del racconto, ingenerando nello spettatore un senso di suspense e angoscia che nemmeno il finale sembra risolvere del tutto.
Hungry Hearts non è un film critico nei confronti del mondo vegan, come molti hanno incautamente sottolineato; è piuttosto un saggio sulla vita di coppia e sull’imprevedibilità delle dinamiche familiari. Costanzo ci mostra come lo spettro della follia abiti fin nel profondo l’apparente innocenza della vita quotidiana. Come molti fatti della cronaca recente dimostrano, è proprio all’interno dell’intimità familiare che può a volte emergere il rimosso di un’intera civiltà occidentale, capace di trasformare la cura in possesso, la tenerezza in ossessione, l’amore in strategia di potere. Hungry Hearts si inserisce così nell’onda lunga di un’annata cinematografica potentemente imperniata sugli insalubri rapporti tra marito e moglie, da Gone Girl a Big Eyes, passando per Viviane: ci dimostra che, per raccontare qualcosa del mondo di oggi, la vita di coppia, con i suoi inquietanti enigmi, si presenta ancora una volta come un’imprescindibile chiave di lettura.
Giulio Piatti