Nella rettangolare casa gialla in riva al mare abitano quattro uomini e una donna che non subito capiamo essere ex-sacerdoti accuditi da un’ex-suora, scomunicati per i più disparati motivi. Trascorrono le loro giornate nell’intento di espiare le proprie colpe, pregando, cantando, mangiando e accudendo un levriero da corsa, unico svago che si concedono. Il buen retiro è però presto interrotto dalla breve ma intensa permanenza di un nuovo inquilino, Padre Lazcano, che suo malgrado e inconsapevolmente, si trascina dietro Sandokan, un infelice senza tetto che ossessivamente accompagna a distanza gli spostamenti del sacerdote fin dalla più tenera età. Proprio la figura di Sandokan, vittima sessuale del sacerdote, costringerà i preti a mettersi a nudo dinanzi ai loro peccati, come forse non avevano mai fatto prima.
A poco a poco così gli uomini, costretti dalle domande incalzanti di Padre Garcia, gesuita e psicologo, giunto con lo scopo di chiudere definitivamente la casa, confessano i propri crimini guardando fissi la macchina da presa quasi fosse uno specchio. Sono preti pedofili coloro che si svelano dinanzi ai nostri occhi; sono ladri di bambini, conniventi con l’esercito e le gerarchie cattoliche durante la dittatura cilena. Sono personaggi che ci vengono mostrati senza nessuna caratterizzazione individuale, vestiti tutti uguali, che comunicano pressappoco con la stessa mimica e lo stesso tono di voce, a voler forse incarnare in toto la parte malata ma viva della chiesa, suggerendoci così che il problema è di carattere generale e non riguarda solo singoli individui. Si vuole forse in questo modo mettere a confronto le due facce della chiesa cattolica, quella ‘buona’ e quella ‘cattiva’, salvo che la faccia buona nel film non è rappresentata da nessuno e salvo che il confine tra parte marcia e parte sana di un frutto è, si sa, sempre frastagliato. Sandokan è stato sì, infatti, vittima di abusi sessuali da parte di Padre Lazcano durante l’infanzia, ma dichiara anche l’amore immenso e unico che prova per il sacerdote, facendosi così portatore di una combinazione di sentimenti che è costante in tutti i caratteri del film, continuamente in bilico tra amore di Dio, peccato e desiderio.
Vincitore dell’Orso d’argento al festival di Berlino del 2015, la quarta opera di Pablo Larrain vuole innanzitutto calare la dimensione spirituale in una dimensione terrena (vengono costantemente ripetuti termini che richiamano l’atto sessuale e le singole parti del membro maschile, mentre raramente vediamo i sacerdoti in preghiera), in un continuo andirivieni di sentimenti contrastanti che ci vogliono forse ricordare che niente è solo spirituale o terreno, niente è solo peccato o integrità, che insomma niente è del tutto bianco o nero, ma tutto è circondato da un alone grigio.
di Carolina Zimara