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La douleur – Emmanuel Finkiel

Ci siamo forse dimenticati di una certa parte di tragedia figlia della seconda guerra mondiale, quella cioè del dolore, straziante, dell’attesa? L’attesa del ritorno, che ha letteralmente logorato mogli e madri durante tutto il conflitto. Il ritorno dal fronte o dai campi di concentramento, dei propri mariti, figli, compagni. Se ci fossimo dimenticati quel tipo di disperazione, se anche solo per un attimo avessimo rilegato quel male ad una disgrazia secondaria rispetto alla guerra combattuta, questa opera cinematografica ci riporta invece lì, nel cuore del tempo sospeso, a Parigi nel 1945, per far tornare alla luce tutte quelle esperienze drammatiche così spesso dimenticate, e per sottolineare come non esistano classifiche del dolore, sentimento così soggettivo.

Marguerite Duras, scrittrice ed esponente della Resistenza, attende il marito, Robert Antelme, anch’esso scrittore e faro del movimento, arrestato e deportato come prigioniero politico. Lo aspetta dal 1944 e l’attesa scaturisce poi in lacerante agonia all’annuncio della fine del conflitto, con il continuo andirivieni di treni alla Gare d’Orsay: arrivano direttamente dalla Germania, carichi di soldati spauriti, muti, ombre di loro stessi. Tra questi, Marguerite cerca continuamente, disperatamente, Robert. Robert che mai vedremo distintamente nell’arco dell’intero film. La sola ed unica protagonista è infatti la donna, costantemente ripresa in primo piano o di spalle, che viene seguita dalla macchina da presa mentre percorre le vie della città, o immobile, a fumare, nel suo appartamento, ora illuminato dai raggi del sole sulle bianche tende ricamate, ora immerso nell’oscurità dopo che la corrente è saltata. Dove lei non vede, non vediamo neanche noi, quando lei è confusa lo siamo anche noi: nei momenti in cui la fermezza di Marguerite vacilla, la macchina da presa sfoca dunque le immagini, che si perdono nei bagliori accecanti del sole d’aprile o nel buio di case malinconiche che attendono il ritorno degli abitanti. Il volto, le spalle, le mani, il portamento dell’attrice Mélanie Thierry sono maestosi, imponenti: non possiamo che rimanere affascinati ad ammirarla, quasi non fosse terrena, nel suo tentativo di sopravvivenza, in mezzo al caos esterno della città e al silenzio greve dell’appartamento. Marguerite/Mélanie, col suo viso iconico, ricorda le donne del cinema moderno francese: Jeanne Moreau, Anna Karina, Jean Seberg.

Tratto dal romanzo autobiografico sull’attesa di Marguerite Duras del 1985, a sua volta tratto da un diario, secondo l’autrice rimasto nascosto e dimenticato per anni, il film rispecchia l’amore del regista per quell’opera che lesse appena diciannovenne, rimanendone profondamente colpito, offrendoci a distanza di anni una narrazione cinematografica dell’attesa inedita e sintetica, a tratti straziante e insopportabile, sempre commovente ed intensa.

Carolina Zimara

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