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La ragazza di Stillwater

Un dramma familiare travestito da giallo giudiziario. Bill Baker, un red-blooded American con tanto di aquila, teschi e coltelli tatuati sul braccio, è impiegato nelle piattaforme petrolifere dell’Oklahoma, da cui regolarmente parte per far visita oltreoceano alla figlia incarcerata da anni con l’accusa di omicidio. Un nuovo indizio restituirà ai due un barlume di speranza nella grigia monotonia delle loro esistenze, ma farà anche riemergere debolezze e fragilità.

La ragazza di Stillwater, presentato fuori concorso al 74° Festival di Cannes e acclamato con cinque minuti di applausi, ha mostrato un Matt Damon emozionato e commosso di fronte al ritorno al cinema e al ritrovato affetto del pubblico, dopo la pandemia da Covid-19.

Attraverso la sua magistrale interpretazione, frutto di lavoro minuzioso e cura dei dettagli (dall’espressione del viso alla gestualità, dall’abbigliamento al modo di parlare), Damon nei panni di Baker ci offre la rappresentazione, stereotipata ma autentica allo stesso tempo, dell’americano medio che vive in uno Stato repubblicano, indossa camicie a quadri e berretti da baseball, prega prima dei pasti e possiede un’arma in casa, quasi a sostenere la legittimità della giustizia privata. Bill in Francia, a Marsiglia, città “molto lontana e molto diversa” in cui si svolge la vicenda e dove Allison aveva deciso di andare a studiare, è simbolico rappresentante dell’America tutta ma è al tempo stesso uno straniero che come tale affronta le difficoltà derivanti dal confronto/scontro con lingua, usanze e consuetudini sconosciute.

Nonostante il gap culturale e linguistico, e grazie all’aiuto sincero e disinteressato di una donna e della sua bimba, Bill si farà strada alla ricerca della verità e di una nuova vita per redimersi dal suo discutibile passato. Il regista Tom McCarthy dedica lunghe sequenze a quella che è considerata una delle città più pericolose di Francia, filmando situazioni quotidiane e popolari come la partita di calcio nell’affollatissimo stadio o i quartieri più malfamati, in balìa delle gang di criminali violenti.

Il regista, dopo Il caso Spotlight, vincitore di due premi Oscar, torna a occuparsi di un caso giudiziario, qui pretesto per raccontare il difficile rapporto di un padre e sua figlia, uniti da sentimenti contrastanti in cui il peso dell’eredità “del sangue” sembra essere determinante. La sceneggiatura è forte e non fa concessioni nei momenti in cui Allison si esprime con rancore e disillusione nei confronti di quel padre che, molto più simile a lei di quanto lei stessa non vorrebbe ammettere, nel tentativo di recuperare le mancanze del passato finisce per ricadere negli “stessi” errori.

Il film è capace di commuovere e i protagonisti in diversi frangenti suscitano tenerezza; tocca temi emotivamente forti, sollevando riflessioni sul significato e l’importanza dell’accettazione nella vita, sulla necessità di accogliere il destino per quello che è (nel film è citato il concetto conosciuto nell’ambito della religione islamica come Maktub) e con lui anche l’ingiustizia, se serve per ritrovare finalmente la pace dell’anima.

Loredana Iannizzi

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