Un senso di profonda solitudine accomuna i protagonisti dell’ultima pellicola di Ivano De Matteo. Lo squarcio di vite narrato ne La vita possibile, senza troppo cedere il passo a pietismi e voyeurismi emotivamente difficili da sostenere, ci regala storie di persone comuni che, nonostante le cicatrici, cercano di andare avanti al meglio delle proprie possibilità e che trovano nel rapporto con gli altri spiragli di speranza e luce.
Valerio, tredici anni, assiste all’ennesimo atto brutale del padre nei confronti della madre Anna. Questo episodio segna la svolta decisiva e radicale, forse definitiva, nelle loro vite. Da qui in poi, infatti, la storia si concentra sul tentativo della mamma e di suo figlio di ricominciare in una nuova città, una Torino autunnale (scelta dal regista come “sostituta” di Parigi dove si sarebbe dovuto ambientare inizialmente il film) di cui si mostra soprattutto la periferia, con i suoi mercati rionali. Ad offrire la possibilità di una nuova vita è l’amica Carla, unico personaggio capace di strappare qualche sorriso, affascinante attrice frustrata dalla vita. Anna deve far i conti col senso di colpa, sentimento che accomuna spesso le donne vittime di violenze in famiglia, soprattutto se madri, derivante dalla consapevolezza di aver estirpato il figlio dal suo contesto sociale negandogli anche l’affetto e la vicinanza del padre, proprio in una fase così importante di crescita. E Valerio, da parte sua, sulla madre scarica tutta la sua rabbia e riversa il suo dolore, mentre trova all’esterno della famiglia due stranieri (anche lui si definisce e si sente così nella nuova città), che lo risolleveranno donandogli nuovi stimoli e la voglia di aprirsi al mondo: la scontrosa prostituta Larissa e il misterioso ristoratore Mathieu, con il quale il ragazzino instaurerà un legame attraverso elementi semplici, il calcio e la bicicletta, trait-d’union tra la vita di prima (presenti infatti nel piano sequenza iniziale) e quella di oggi.
De Matteo ci regala un film sui rapporti familiari, tema a lui caro e già trattato nei lavori precedenti, scrivendone la sceneggiatura assieme alla moglie Valentina Ferlan. Il film mostra con semplicità – forse a tratti percepita come eccessiva e quasi banale – il probabile iter di ricostruzione di un’esistenza “normale” che una donna vittima di violenza domestica, (trovato il coraggio di denunciare e dire basta), si ritrova ad affrontare: la ricerca di un lavoro, fondamentale per il proprio sostentamento, le difficoltà di riapprocciarsi agli uomini, lo scontrarsi con le contraddittorie normative in materia di violenza contro le donne, la necessità di riaffermare la propria dignità. Il finale offre una speranza di risalita ai protagonisti della storia (simboleggiata dall’ascensore del Museo del Cinema e dalla mongolfiera): una corsa verso il futuro, sulle note della canzone La vita di Shirley Bassey, verso una vita che non sappiamo se sarà bella o deludente, migliore o più difficile, quello che conta è che sarà possibile.
di Loredana Iannizzi