Bastano pochi indizi per riconoscere la firma di Aki Kaurismäki, il regista finlandese più conosciuto al mondo: il rigore geometrico delle inquadrature, i dialoghi laconici, immersi in un’ironia felicemente involuta e un’estetica – non vintage – che omaggia gli anni Sessanta e Settanta. L’altro volto della speranza, Orso d’Argento al Festival di Berlino, non fa eccezione, installandosi perfettamente in questo orizzonte, tra espliciti omaggi ai suoi film precedenti e l’utilizzo di attori ormai noti (impossibile non citare il cammeo, nel ruolo di una merciaia, di Kati Outinen, attrice feticcio del regista).
Due storie si intrecciano: da un lato quella di Waldemar Wikstrom, uomo di mezza età che lascia tutto (professione, casa e moglie) per rilevare e gestire un piccolo e sgangherato ristorante e dall’altro quella di Khaled Alì, rifugiato siriano alla ricerca della propria sorella, il quale approda quasi per caso in Finlandia. Kaurismäki sembra qui riprendere il discorso inaugurato con il fortunato Miracolo a Le Havre, orientato a far dialogare l’eccentrica venatura umanistica della propria poetica con una componente esplicitamente sociale, di forte critica rispetto alle politiche europee sulle migrazioni. Dove lì l’omaggio obliquo al realismo poetico e alla Nouvelle Vague diveniva lo sfondo attraverso cui accompagnare il viaggio verso Londra di un ragazzino africano, qui sono una serie di personaggi irresistibili – burberi, autistici, ma così poco cinici – a interessarsi a Khaled, escluso da una società tanto attenta al benessere dei propri cittadini quanto – pare – indifferente alla sorte del resto del mondo. Il pittoresco ristorante di Waldemar – quasi un calco di quello al centro del bellissimo Nuvole in viaggio (1996) – diviene allora il laboratorio nel quale sperimentare non tanto un’integrazione possibile quanto un riconoscimento che si attua nella più concreta delle circostanze, non pilotato da principi astratti né da convinzioni politiche.
Kaurismäki non ha paura di costruire un film a tesi, prendendosi sino in fondo il rischio di risultare iperbolico, semplicistico, manicheo. Nell’opporre il bene al male, ovvero l’umanità alle leggi, il regista finlandese sembra volerci convincere a tutti i costi della piega che il mondo occidentale sta attraversando, senza tuttavia indugiare nella retorica, nei buoni sentimenti, negli imperativi morali. Con testarda semplicità, L’altro volto della speranza ci conduce in definitiva a riflettere su cosa significa – da due punti di vista complementari e perciò paradossalmente vicini – cambiare la propria vita.
di Giulio Piatti