Firenze, 1348. La peste incombe sulla città mietendo impietosamente vittime su vittime. Un gruppo di dieci ragazzi, sette femmine e tre maschi, decide di fuggire dalla minaccia della morte rifugiandosi in una villa abbandonata, incastonata nel verde delle colline toscane. Immersi in questa nuova realtà ovattata e spaesante, cominciano a costruirsi una diversa, particolare quotidianità che assume le sembianze e i ritmi d’una vera e propria vita in comunità; a scandire i vari momenti di queste giornate sono i racconti che, a turno, i giovani iniziano a raccontarsi: sono storie di morte e d’amore, tragiche e comiche ad un tempo, che a volte assumono persino i toni pedagogici della parabola, che vogliono divertire e distrarre da un lato, ma che dall’altro fanno riflettere e forse addirittura sperare.
Ecco prendere in questo modo l’avvio del racconto vero e proprio, tanto nel libro quanto in questa nuova versione cinematografica dei fratelli Taviani, dopo un preambolo che, di nuovo, tanto nel libro quanto nel film ha funzione esclusivamente introduttiva, la cui natura infatti incide particolarmente sulla versione filmica, che si presenta in questa parte piuttosto insipida e ridondante, complice probabilmente l’irrigidita interpretazione dei novellatori, affidata a giovani attori esordienti di accademia.
Di tutt’altro genere e stile si presenta invece la parte che mette in scena le varie storie narrate; il merito di questo salto qualitativo, anche in questo caso, non è certo delle doti interpretative dei protagonisti, in questo caso volti noti del cinema italiano contemporaneo, il cui meglio che si può dire è che la loro sia un’interpretazione senza infamia e senza lode, meno artefatta rispetto a quella dei loro inesperti colleghi, ma comunque poco convincente. Se non sono gli attori, a fare la differenza e a risollevare la pellicola sono ovviamente i due registi che, con le loro mani sapienti, costruiscono un grande affresco, dai toni vivaci e sensuali, sulla passione e sull’amore.
Attraverso coreografie piene di potenza figurativa, costumi colorati e scelti con cura ed uno stile pittorico elegante e geometrico, i Taviani vogliono dare una dimostrazione palmare di quanta importanza e potere possono ancora avere la bellezza e l’immaginazione, la fantasia e, la maraviglia (di matrice mariniana, significativamente rievocata nel titolo) per un mondo opaco e ingrigito che grazie all’arte si potrebbe riscattare e ricolorare. Questo Boccaccio diventa allora una sorta di grande operazione di rinnovamento e rinascita, una nuova metafora con all’origine sempre la stessa idea dell’arte come strumento di lotta per superare le contraddizioni della vita. Tutto questo riesce ai fratelli Taviani? Il pubblico riesce, ad accedere a questa particolare chiave di lettura? Purtroppo la risposta che sembra più adeguata è quello d’un timido “forse”: perché dopo gli entusiasmi vissuti nelle novelle, la peste è passata e i ragazzi, decisi a ritornare in città, si spendono in un balletto di congedo, che provoca un effetto più grottesco che poetico.
Enrico Zimara