Martin Eden è il terzo lavoro di Pietro Marcello, tra i più originali registi italiani in attività, capace di far dialogare in forme inedite, già a partire dal bellissimo La bocca del lupo, premiato al Torino Film Festival, realtà e finzione, rigore filmico e creatività, documentarismo e respiro narrativo.
Con Martin Eden, il regista si confronta con un classico del primo Novecento, a firma di Jack London, ribaltandone completamente la cornice spazio-temporale, pur mantenendone al contempo miracolosamente intatto il senso. Storia di un marinaio-poeta alla ricerca di un’emancipazione socio-culturale, il film pare apparentemente raccontare, attraverso l’appassionata storia d’amore tra il vitalissimo Martin e la ricca borghese Ruth, il topos dell’incontro tra due mondi inconciliabili, radicalmente differenti per premesse, ritualità, ambizioni e linguaggio. Ciò che in realtà viene mostrato è il coming of age di un giovane speciale, dalla sensibilità inquieta, figlio (non così) atipico di quella Belle Époque che aveva in fondo posto il proprio sigillo sull’Ottocento liberale. Figlio di questa crisi, Martin, da poeta della (propria) vita – e con l’aiuto dell’amico Russ – oscilla costantemente tra un’adesione alle idee socialiste e una definitiva riscoperta dannunziana, nietzschiana (e soprattutto spenceriana) – e in definitiva anarchica – dell’individualità e delle forze irrazionali che guidano il vero uomo dentro il gioco della società.
Se lo spostamento dell’asse geografico – dalla California primonovecentesca a una Napoli variopinta e vitalmente decadente – colpisce per l’inaspettata appropriatezza, è il lavoro sulla temporalità a costituire la vera e propria idea portante del film: Marcello, infatti, sceglie di praticare un doppio coup de théâtre: da un lato innestando significativi inserti documentaristici – tra cui uno splendido filmato di Errico Malatesta, vero e proprio alter ego del protagonista – sulla finzione narrativa, in continuità con la sua poetica; dall’altro trasportandoci in un vero e proprio viaggio del tempo nell’Italia del Novecento capace, confondendo le epoche (tra televisioni, radio, manifestazioni, pubblicità, ricostruzione), di farcele forse comprendere per davvero. Con tocco lieve e per nulla autoreferenziale, ci viene insomma offerta una riflessione sulle contraddizioni e le coazioni a ripetere della nostra storia.
Pur non mantenendo, nella seconda parte, il ritmo ispirato della prima – vero e proprio cinema-poesia, che non teme di apparire schiettamente romantico – e ricadendo in un certo didascalismo (forse il prezzo da pagare per rendere intellegibile la vicenda romanzesca), Martin Eden è una piccola perla, un delicatissimo esercizio di equilibrismo tra forma e contenuto.
Giulio Piatti