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mister universo

Mister Universo – Tizza Covi

Tairo Caroli interpreta sé stesso: insoddisfatto domatore di malaticci ed annoiati leoni, trascorre le giornate tra le fredde e bianche roulotte del circo, alternando ai continui dispetti con i colleghi le più affettuose conversazioni con Wendy Weber, giovane, gentile acrobata. Lo spunto che dà il via alla storia, che può così, di fatto, configurarsi legittimamente un road movie, è la scomparsa (forse proprio per mano di un collega dispettoso) di quello che Tairo considera il portafortuna (“Non credo ai portafortuna in generale, ma a questo sì!”): una piccola barra di ferro piegata anni prima da Arthur Robin/Mister Universo, donata ad un Tairo bambino durante un’esibizione dell’imponente uomo. L’espediente narrativo dell’assenza di questo oggetto corrisponde, in realtà, ad una profonda crisi interiore del ragazzo, che decide addirittura – come mai aveva fatto prima – di allontanarsi per giorni dal suo ambiente alla ricerca di un degno sostituto del talismano perduto e dunque – anche e soprattutto – alla ricerca di sé stesso. Intraprenderà, così, un singolare viaggio a bordo della sua auto grigia e un po’ sgangherata, setacciando tutte le roulotte amiche, nelle quali troverà sempre una generosa accoglienza fatta di caffè caldi e buoni consigli, con l’obiettivo finale d’incontrare Mister Universo e fargli piegare nuovamente un ferro per lui, nella speranza di mettere così fine ai suoi dubbi e tormenti.

“Cosa vuol dire essere un essere umano al giorno d’oggi?”. È questa la domanda che si sono posti i registi ideando questo film, come ha dichiarato la stessa Tizza Covi in un’intervista. L’opera trasuda, in effetti, di realtà, di quella realtà cinematografica che è data prima di tutto dalla scelta di attori non professionisti, di persone che, sullo schermo, sono chiamate semplicemente ad interpretare loro stesse, il loro essere umani e stare nel mondo, modificando così lo stesso modus operandi della regia che deve in qualche maniera adattarsi agli attori e non l’inverso come più frequentemente accade nel cinema puramente di finzione. Il duo registico ottiene questo effetto di realtà conoscendo a fondo le persone prima di portarle nel film, intessendo poi la sceneggiatura sulla loro pelle e filmandole esclusivamente nei loro ambienti naturali. Anche la scelta dell’uso della pellicola al posto del digitale risponde a questa esigenza di autenticità: nelle parole di Tizza Covi, “la pellicola è più umana”.

Menzione speciale al Festival di Locarno 2016, il film ha il pregio di coniugare l’universalità del tema (il viaggio di formazione), con la classicità del genere cinematografico (road movie), servendosi di una messinscena moderna, volta ad un effetto di realtà e autenticità dei personaggi e delle vicende raccontate, creando così un’autentica opera di poesia cinematografica.

di Carolina Zimara

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