Andrea Pallaoro, trentino d’origine ma statunitense d’adozione, torna alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con il suo terzo lungometraggio, Monica.
Dopo il grande successo di Hannah, che sempre a Venezia vale la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Charlotte Rampling, Pallaoro continua a indagare l’universo femminile, portando sulle schermo il rapporto conflittuale di una ragazza con la sua famiglia.
Per la protagonista, è una doccia fredda la telefonata in cui le comunicano che alla mamma rimangono pochi mesi da vivere, perché quando Monica, tanti anni prima, ha lasciato la casa d’origine per trasferirsi fuori città era un’altra persona e la notizia sarà la ragione per farvi ritorno dopo la lunga assenza. Tornare significa entrare ancora più in profondità nel dolore che la perseguita da quel giorno, ma sarà anche l’occasione per superare le proprie paure e trovare dentro di sé la forza per andare avanti e rimarginare le ferite del passato.
Di fronte alle due donne, lo spettatore si accorge subito che un segreto le separa e al tempo stesso le rende così intimamente vicine, come se il silenzio e la lunga sequenza di non detti fossero sufficienti a esprimere tutto quello che le parole non sono in grado di dire. Questa vicinanza sofferta viene rappresentata da Pallaoro attraverso una lunga serie di primi piani che indagano l’animo della protagonista e ne esaltano la fisicità sensuale. Le due attrici, Trace Lysette e Patricia Clarckson, non potrebbero essere più diverse nello stile attoriale e nei tratti, a rimarcare ancora di più la distanza tra i due personaggi.
Anche la scelta delle musiche sottolinea l’indagine introspettiva ricercata dal regista, mettendo in evidenza la sofferenza di Monica, che con la sua manifesta vulnerabilità non nasconde il desiderio di essere amata. Significativa, in questo senso, la sequenza finale, in cui l’inno nazionale degli Stati Uniti, cantato dal suo piccolo nipote, fa da sottofondo a un lungo primo piano dell’attrice commossa e sul cui finale, epicamente, si chiude anche il film. Una scelta potente, che lascia lo spettatore nel silenzio assoluto, preda delle emozioni.
Come già dimostrato in Hannah, Pallaoro non cerca la strada facile per raccontare la storia, sia sul piano contenutistico che su quello stilistico, come dimostra anche la scelta del formato 1:1. Al travaglio dei rapporti umani si affiancano il ritmo lento e la tristezza che caratterizza le sue protagoniste, scomoda compagna della visione. Eppure, l’originalità di queste scelte dona alla storia un forte pathos, elevando la vicenda personale a una dimensione universale. Di certo, ha convinto la critica, che ha inserito l’opera tra i cinque finalisti per il Leone d’oro. Adesso, non resta che aspettare la prossima produzione, che dopo Hannah e Monica chiuderà la trilogia sulla figura femminile.
Valeria De Bacco