La questione dell’abbigliamento in un percorso di affermazione della propria identità (di genere) non è affatto banale: chi pensa che l’abito sia solo un mero accessorio estetico pecca quantomeno di ingenuità, per non dire che è del tutto fuori strada. L’intero film della regista Mounia Meddour Gens ruota proprio attorno a questo pensiero: l’abito come strumento di affermazione di sé, come metafora di emancipazione, in un contesto (l’Algeria negli anni Novanta, sconquassata dalla guerra civile), dove la scelta di indossare un certo capo d’abbigliamento (e di non indossarne certi altri) si rivela un gesto politico, una decisione che può condurti alla morte.
La protagonista Nedjima frequenta l’università di moda di Algeri (luogo che ricorda più un carcere che un luogo di formazione) e passa tutto il suo tempo a disegnare, velocemente, quasi compulsivamente, bozzetti d’abiti che, una volta trasformati in vestiti veri, vende nei bagni delle discoteche assieme all’amica Wassila, uscendo di nascosto dall’università-carcere con la complicità del guardiano, lautamente compensato. Il film si apre proprio con una delle loro tante fughe, scandita da risate e gridolini, virata poi nei colori blu e rossi delle luci psichedeliche della discoteca. L’incipit evoca una commedia tardo-adolescenziale perlopiù spensierata.
Nulla fa presagire quello che succederà di lì a poco: l’ondata del fondamentalismo islamico, sempre più potente, sempre più pervasiva, spazzerà via ogni possibilità di autodeterminazione e libertà per le donne algerine, imponendo loro di portare un solo vestito che copra tutto il corpo. La lotta per il diritto di indossare un paio di jeans si trasforma presto per Nedjima e le sue compagne nella lotta per il diritto di esistere come persone, come Papicha (giovane alla moda) libere in un paese non libero. Nedjima si ribella così con l’unico mezzo che conosce: la moda. La studentessa attraversa due momenti nel suo percorso artistico e il passaggio dall’uno all’altro avviene come tentativo di fuoriuscita da un trauma. I due periodi si accomunano nella contrapposizione cromatica al nero, il colore imposto dal fondamentalismo religioso. Le sue creazioni iniziali sono contraddistinte da colori sgargianti e zampillano di decorazioni, orpelli, luccichii, insomma sono vestiti da serate a ballare con le amiche. Nel suo lavoro post-trauma invece spazza via tutte le tonalità a favore di un rigorosissimo monocromatismo: utilizzando l’haik (rettangolo di stoffa bianco, tradizionale tessuto per abiti da sposa algerini) crea abiti solo bianchi, senza cuciture né spigoli, facendosi così promotrice di una sorta di controrivoluzione dell’haik.
La lotta femminista non è mai semplice, non può che essere sempre un processo lento e contestualizzato, in particolar modo, appunto, in un paese e in un periodo storico come quelli del film. Però nella tragedia, sembra dirci la regista, ancora una volta, proprio la sorellanza si rivela essere l’arma più efficace contro la sopraffazione.
Carolina Zimara