Dopo il formidabile El Abrazo de la serpiente (2015), Ciro Guerra torna alla regia, in coppia questa volta con Cristina Gallego, con Oro verde – C’era una volta in Colombia. Ambientato nella parte nordoccidentale del paese, più precisamente nel deserto di La Guajira, racconta di come una famiglia di antiche origini amerindiane (Wayuu) si trasformi, nel corso degli anni Settanta, in una delle più attive realtà del narcotraffico locale.
L’originalità del film sta tutta nel punto di vista adottato: più che raccontare la storia dei cartelli colombiani, le sue origini o i suoi sviluppi, i due registi realizzano una sorta di etnografia del narcotraffico, andando a sondare la frontiera che divide – e perciò collega – un mondo antichissimo, legato a una cultura rituale e tradizionalista da un lato e un capitalismo aggressivo, postcoloniale, amorale dall’altro. Tra il mondo dei presagi, dell’analisi dei sogni, del passaggio estivo degli uccelli (titolo originale: Pájaros de Verano) e il mondo del denaro, della violenza e delle predazioni, si inserisce la storia – d’amore? – tra Rapayet e Zaida, scandita prima dal fiabesco racconto della dote “rovesciata” e poi scesa nel gorgo delle rese dei conti tra clan, in cui il familismo tradizionale rivela un’inedita alleanza con il più formidabile affarismo illegale.
A incorniciare le vicende, troviamo un deserto “verde”, ampio, prima alleato dei presagi, grande cornice di segmenti onirici latori di una ciclicità cosmica degli eventi, di un eterno ripetersi della vita, sia a livello umano sia, soprattutto, a livello naturale; poi, triste spettatore (a sua volta non più scrutato) di una serie di violenze scellerate, tracotanti.
Oro Verde è un poema in forma di film che racconta, in cinque canti e con modalità a volte un po’ manichee, una vicenda poco nota, senza farsi incantare dalle sirene del documentarismo e della ricerca della cronaca, dell’inchiesta o, peggio, dell’esattezza; più interessati all’antropologia che alla narrazione, più alla ricerca delle ragioni che non degli effetti, Guerra e Gallego ci immergono in un mondo di riti ancestrali – seppur non privo di ambiguità – che disegna in controluce l’ombra stessa, e i limiti, della ragione occidentale. Gli uccelli, osservati o ignorati, continuano il loro volo; il ciclo della realtà, con o senza l’uomo, prosegue il suo corso.
Giulio Piatti