Lampadine senza lampadari, materassi senza letti, vasi senza fiori: sono questi gli oggetti tronchi che caratterizzano gli appartamenti di quella sorta di comune hippie in cui è ambientato Partisan. Gregori (Vincent Cassel), unico uomo, capo della comunità, ha raccolto, all’interno di mura diroccate e grigie, una miriade di bambini e bambine (presumibilmente orfani di padri) assieme alle loro madri, facendo sì che le spoglie pareti di questo singolare microcosmo si tingano di colorati disegni dipinti dalle piccole mani della prole acquisita. Dove e quando siamo non è dato sapere: è sufficiente intendere che ci troviamo ai limiti di una squallida città, in un luogo chiuso, accessibile solo attraverso cunicoli e tunnel improvvisati, delimitati da porte sgangherate munite di lucchetti che vengono aperti verso l’esterno solo da Gregori o, per suo volere, dai bambini, e mai dalle donne, relegate nel ruolo di madri/concubine accondiscendenti. Neanche del passato di Gregori o della sua vocazione ad aiutare donne in difficoltà sappiamo granché: quel che è certo è che Gregori si pone nei confronti dei figli di altri come padre affettuoso e generoso (non si sa bene in che modo, ma è solo lui che procura il denaro e i viveri di cui la famiglia allargata ha bisogno), ruolo che gli arroga anche il diritto di educatore a pieno titolo di questa casa-famiglia al confine tra il degradato e l’hippie.
Gregori è un insegnante capace: riesce con facilità a catturare l’attenzione dei suoi piccoli discepoli, spronandoli con severità o premiandoli con affetto, e soprattutto è in grado di tenere lezioni pratiche e teoriche su una moltitudine di argomenti, inclusa l’arte di uccidere. In effetti, fin dalle prime scene, la presenza di una musica metallica e profonda ci suggerisce in qualche maniera un’atmosfera sinistra, ma non ci rendiamo veramente conto di cosa si tratta finché non vediamo delle pistole in mano ai bambini. Le simulazioni di morte che avvengono nel cortile interno del piccolo mondo si trasformano sistematicamente in delitti veri e propri, compiuti dai bambini-killer per conto del padre mandante/manipolatore verso soggetti esterni alla loro comunità e senza capire bene il perché. Inglobando il delitto in un accurato e funzionante sistema di regole (con tanto di cartelloni con stellette di buona condotta per ciascun bambino), Gregori riesce a far sparare a sangue freddo i suoi piccoli seguaci, senza fornire loro alcuna motivazione rispetto ai loro gesti, postulando così quasi un’estetica del delitto, della morte per la morte ma anche un’estetica dell’educatore, detentore del potere e del sapere tout court, incontestabile e indiscutibile (almeno fino a quando lo studente non superi il maestro).
Ispirata da un reportage sui bambini colombiani trasformati in killer, l’opera prima del regista Ariel Kleiman vorrebbe forse porre l’accento, prima di tutto, sul labile confine tra educazione e manipolazione e sottolineare come, anche nei casi in cui si ha una deriva verso la seconda, in ultima istanza è l’emancipazione del soggetto che può e deve avere la meglio.
di Carolina Zimara